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Matrimonio e natalità: due tabù contro la crisi

La dimensione economica non basta a spiegare la stagnazione riproduttiva

“Tanti anni fa abbiamo pensato che non facendo figli saremmo diventati più ricchi, saremmo stati meglio. È successo esattamente il contrario: non facendo figli, siamo diventati più poveri e staremo male per molto tempo se non riusciamo a sgonfiare questo sistema di indebitamento e se non torniamo a far nascere almeno i bambini concepiti.”, Ettore Gotti Tedeschi. In Italia assistiamo ad un progressivo rallentamento delle nascite, quantificato dal Censis in qualcosa come 62.000 nati in meno all’anno dall’inizio della crisi. Anche a Foligno la natalità è in calo contrariamente alla popolazione che è in aumento grazie al flusso migratorio (+6.000 in 13 anni). In maniera del tutto profana proviamo a fare alcune acerbe riflessioni. La prima considerazione è che non esiste un rapporto casuale fra inverno demografico e l’attuale crisi economica, anche se molti lo credono. Se cioè nascono sempre meno bambini è anche in conseguenza della recessione economica, ma il precariato e l’impoverimento attuale non bastano a descrivere uno scenario antico. L’Italia, infatti, registra una bassa natalità dalla fine degli anni ‘60. Lo mostra in modo chiaro l’esempio della Germania che, pur essendo interessata dalla crisi in misura decisamente più leggera rispetto all’Italia, come Paese sconta una denatalità ancora più grave: 8,4 bebè ogni mille abitanti per il 2012, perfino peggio degli 8,5 registrati da noi. Se si vuole spiegare la denatalità, insomma, la crisi non basta, anzi forse vale il contrario: la denatalità spiega la crisi. E non bastano neppure – seconda considerazione – elementi quali l’occupazione femminile o gli asili nido. Lo spiega bene lo statistico Roberto Volpi quando ricorda il sorprendente caso dell’Emilia Romagna, già dalla fine degli anni Sessanta all’avanguardia fra tutte le regioni italiane (con un indice di posti-nido ogni cento bambini migliore di quello europeo, il cento per cento di posti nelle scuole materne e un’occupazione femminile di livello europeo). Ebbene, nel pieno degli anni ‘90, dall’alto di questi record, in Emilia Romagna si è assistito «al precipitare delle nascite di anno in anno fino all’inconsistenza di 0,9 figli per donne […] record nel mondo ancora ineguagliato» (Il Foglio, 28/10/2010, p.3). Né la crisi in particolare né, in generale, la dimensione economica bastano a spiegare la stagnazione riproduttiva europea. Il discorso sulle origini delle denatalità diventa invece più lineare – terza considerazione – se si esamina la crisi del matrimonio, che non è stata meno drammatica, anzi, di quella delle culle vuote: fra il 1970 ed il 2009 nel Regno Unito sono passati da 8,5 matrimoni ogni 1000 abitanti a 4,4, in Francia dai 7,8 ai 4,0, in Germania dai 7,4 ai 4,6, in Italia dai 7,3 ai 3,6. Non è dunque ragionevole ipotizzare che nascono meno figli anche perché ci si sposa meno e ci si sposa meno perché manca la fiducia nel matrimonio e, prima ancora, quella nel futuro che l’unione indissolubile sigilla? Il problema delle “culle vuote” – certamente cronicizzato dal divorzio e dalla contraccezione – non potrebbe essere dunque anzitutto di origine antropologica e spirituale? Se la natalità è una risposta alla crisi dell’epoca contemporanea può essere interessante leggere i dati umbri dove emerge che il 68% dei bambini nascono all’interno del matrimonio, rispetto al 31% tra i non coniugati e 1% da single. Se il matrimonio sembra favorire la natalità, forse sarebbe utile investirci?! Ma questo, come la crisi religiosa, è un altro tema proibito.

GIOVANNI ZAMPA

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