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Quarantasette anni, ventisette trascorsi in carcere: la storia di Vincenzo Rucci, detenuto del circuito di alta sicurezza del Carcere di Spoleto.

Lo scorso 5 maggio si è concluso per gli studenti della classe II A dell’Istituto Tecnologico “L. da Vinci” di Foligno l’interessante progetto di incontri/discussione con il detenuto del circuito di alta sicurezza della casa di reclusione di Spoleto Vincenzo Rucci. Il progetto è nato dall’iniziativa di Rucci stesso, che ha scritto una propria autobiografia e ha chiesto di incontrare i ragazzi delle scuole per dissuaderli dall’intraprendere una scelta di vita affine alla sua. Gli studenti, dopo aver letto l’autobiografia, hanno svolto una serie di incontri con l’autore in carcere. Il progetto ha permesso agli studenti di conoscere il mondo carcerario e le problematiche del detenuto, riflettere sulla compatibilità tra sistema carcerario e Costituzione, e in particolare sul dettato dell’articolo 27, ossia sulla rieducazione e sull’accoglienza al momento del rientro in società. All’ultimo di questi incontri ho avuto la fortuna di partecipare io stessa. Presenti i responsabili del progetto: la prof.ssa Lucia Vezzoni, docente di italiano, la dott.ssa Tiziana Porfilio, educatrice del carcere, la dott.ssa Rita Cerioni, ex magistrato e volontaria al carcere di Spoleto, il docente di diritto prof. Fabio Massimo Sebastiani e la dirigente dell’Istituto scolastico dott.ssa Rosa Smacchi. Punti di discussione sono stati l’articolo 27 della Costituzione e le norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Al termine dell’incontro ho avuto la possibilità di intervistare Vincenzo Rucci chiedendogli di sintetizzare in breve la sua esperienza di vita per i lettori della Gazzetta.

Come ha vissuto la sua infanzia?

Sono nato a Ginosa, un paese in provincia di Taranto di circa venticinque mila abitanti. La mia famiglia era povera e per esigenze per lo più economiche ho dovuto abbandonare precocemente gli studi scolastici. A casa mio padre cercava di educarmi con le botte: violenza fisica e verbale hanno contraddistinto tutta la mia infanzia. Quando venivo picchiato da mio padre (spesso con la cinta dei pantaloni), le prime volte ero molto impaurito. Mio padre faceva davvero paura! Col passare del tempo, invece di impaurirmi, mi cresceva la rabbia con un senso di ribellione che mi induceva a fare tutto il contrario di quello che lui mi diceva. All’età di nove anni ho cominciato a commettere piccoli furti. Rubavo spiccioli e accendini nei cruscotti delle macchine. Rubare mi permetteva di soddisfare piccoli desideri in competizione con bambini di famiglie agiate.

Da questi piccoli furti come è entrato nella malavita?

Dopo aver abbandonato la scuola cominciai a rubare ogni notte. Divenni un vero rapinatore. Una sera, sul finire del 1984, ero sulla piazza di Ginosa, quando vidi passare una ragazza sottobraccio ad un ragazzo di Bari; li guardai con curiosità, ma il barese mi minacciava. Per tutta risposta come lo ebbi a tiro iniziai a dargli pugni e cadde a terra. Il barese si alzò e mi tirò un pugno in piena faccia: non ci vidi più dalla rabbia, mi divincolai, estrassi un coltellino dalla tasca e glielo infilai nel petto; quando vide uscire il sangue scappò via. E così mi arrestarono la prima volta. Mi feci due mesi di carcere e in quell’ambiente conobbi tanti delinquenti di spessore. La mia carriera delinquenziale progrediva brillantemente prima nella mia testa e poi nei fatti, e io non vedevo il baratro in cui sarei andato a finire. La prima cosa che feci una volta uscito dal carcere fu di andare in alcuni paesi della provincia di Taranto, e a Taranto stessa, per consegnare alcuni messaggi da parte di amici detenuti, quasi tutte le persone che incontrai mi diedero soldi, secondo l’usanza di allora, una sorta di dovere. Fuori dal carcere continuai a fare rapine su rapine, conobbi spacciatori e iniziai ad assumere sostanze stupefacenti. Il 5 agosto 1989 ottenni dal carcere di Taranto un permesso speciale di 5 giorni, ma alla scadenza decisi di non rientrare in cella. Divenni latitante. Il boss di Taranto mi ospitò nel suo bunker. Entrato in questo giro arrivai a commettere due omicidi.

Cosa ha provato mentre uccideva?

Quando entri in questi circuiti desideri commettere un omicidio per essere rispettato, per far capire agli altri che sei una persona che vale. Quando hai la pistola in mano, non capisci più nulla. Mi sono reso conto di quello che ho fatto solamente tanti anni dopo, in carcere. Ora sono assalito dai rimorsi e dai sensi di colpa. Proprio per questo ho deciso di iniziare questo progetto con le scuole. Il mio obiettivo è quello di sensibilizzare i giovani a non cadere nella trappola della delinquenza, apparentemente allettante, perché consente di realizzare nell’immediato ogni desiderio, ma che più tardi si rivela l’anticamera di una vita sprecata. Oggi ho quarantasette anni, ventisette li ho trascorsi in carcere; in ventisette anni ho “visitato” venticinque carceri in giro per l’Italia, da nord a sud. Chissà come sarebbe stata la mia vita se fossi stato una persona “onesta”? Sicuramente avrei avuto una famiglia tutta mia, magari tanti figli che avrei visto crescere. Oggi sono un ergastolano “condannato a morte”, ho bruciato la mia vita per niente. Nella mia vita ho fatto di tutto, senza mai aver paura, ho commesso tanti di quei furti che mi sarebbe difficile contarli, ho fatto tante rapine, estorsioni, omicidi, sparatorie. Per brevi periodi ho fatto davvero la bella vita, ma ora non ho più niente. Ho perso anche la mia famiglia, quella famiglia che amavo.

CELESTE BONUCCI

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