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Il terremoto del ’97 e il significato del ricordo. Cosa avvenne quei giorni nell’Ospedale di Foligno

La rivisitazione di eventi trascorsi, oltre che occasione della memoria di vissuti individuali, è la testimonianza di un’epoca. Ricordi di vicende personali si intrecciano con ricordi relativi a vicende collettive coeve trascorse con la comunità di appartenenza. La valenza del ricordo è più intensa se legata ad eventi spiacevoli di particolare impatto emotivo: come per noi folignati sono stati il terremoto del 26 settembre ‘97 di cui in questi giorni ricorre il ventennale, lo sciame sismico seguente, l’immediato periodo post sismico: avvenimenti che ci riportano al clima respirato in quei mesi. Scosse, macerie, disagi, appartamenti forzatamente abbandonati, persone sradicate dai luoghi consueti; l’impatto psicologico subito da adulti e minori: paure reali percepite da chi viveva direttamente il dramma nel suo evolversi; paure virtuali percepite da alcuni di noi, perché il sisma ridesta incubi ancestrali radicati nell’inconscio; paure inespresse che in molti si trasformavano in inquietudine, tensione psicologica continua capace di far sobbalzare al minimo rumore. In questo contesto tutti vivevamo la quotidianità: i più fortunati continuando a risiedere nelle proprie case non lesionate, gli altri, sfollati nelle tendopoli, moduli abitativi, container. Quella che segue, la narrazione del mio ricordo di quei giorni, è anche la testimonianza del contributo silenzioso offerto alla comunità da tante persone, che, a motivo del loro lavoro, hanno affrontato per mesi l’emergenza sismica in condizioni precarie. Impreparato come tutti alla novità imprevedibile della scossa che mi aveva bruscamente svegliato alle 2,33 della notte, ancora turbato, ricevevo un’ora più tardi, dall’ospedale della nostra città dove allora prestavo servizio, una telefonata con cui mi si chiedeva di accorrere nel mio reparto, in cui avrebbero trasportato i feriti da sottoporre ad indagini radiologiche. Alla mia obiezione che quella notte non mi spettava il turno di reperibilità, la telefonista rispondeva di aver ricevuto ordini superiori di chiamare, causa l’emergenza, tutto il personale medico disponibile. Uscire a malincuore nel cuor della notte, camminare tra macerie di cornicioni ingombranti il suolo stradale diventato impraticabile alla viabilità automobilistica, raggiungere l’ospedale, e con il collega di turno quella notte subito dividerci i compiti da svolgere sui numerosi pazienti feriti che ci avrebbero impegnato per quasi tutta la notte: flashback della memoria che il tempo sbiadisce. Poi, l’indomani mattina, alle 11,42 la scossa di magnitudo 6,1 (che determinò il crollo della volta della Basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, uccidendo 2 frati e 2 funzionari della Sovrintendenza). Ricordo il pericoloso oscillare delle pesanti apparecchiature e delle pareti del locale in cui mi trovavo nel mio reparto. Subito dopo, fu decisa l’evacuazione dal S. Giovanni Battista la cui struttura aveva riportato qualche lesione non grave, di tutti i pazienti ricoverati, trasportati negli ospedali del circondario. Dopo settimane in cui il compito della nostra equipe radiologica si svolgeva presso un ospedale da campo subito allestito, fu deciso dai responsabili il ritorno al vecchio S. Giovanni Battista che aveva dato segni di affidabilità: ritorno limitato soltanto ad alcuni reparti, come il nostro, dotato di apparecchiature fisse che necessitano, per funzionare, della presenza in loco del paziente. In tutto il territorio si susseguivano scosse sismiche senza tregua, a qualunque ora; il morale non era alle stelle: ma bisognava affrontare la quotidianità. In questo contesto, uomini e donne componenti il personale ospedaliero non disertavano il posto di lavoro: dedizione, identità condivisa del senso di appartenenza, collante più forte rispetto al deterrente della paura. La percezione più alta del pericolo incombente si è per me materializzata una notte, qualche mese dopo il 26 settembre: chiamato per un’urgenza, mi trovavo accanto al letto di un giovane paziente cui era appena stato effettuato un esame radiologico, quando d’improvviso le pareti della stanza hanno cominciato a tremare oscillando paurosamente per lunghi interminabili secondi; impietrito, non ho saputo far altro che rimanere fermo accanto al paziente. È difficile per me ricostruire la sfera intima dei miei pensieri di quegli istanti. Dico solo che grazie a Dio è andata bene. È andata bene a tutti: le scosse sismiche sono diminuite nel tempo per intensità e frequenza, lentamente si è consolidata la normalità. Trascorsi 20 anni, qualcosa è rimasto di allora: il ricordo di chi ha condiviso con me in ospedale l’impegno del lavoro, anche in reparti diversi. Molti di loro hanno concluso la carriera, sono in quiescenza, altri, più giovani, continuano a lavorare; altri purtroppo sono passati all’altra vita. A tutti costoro, ai militi ignoti che con dignità e dedizione hanno svolto il loro compito di cura e assistenza alla persona che soffre, sono dedicate queste parole.

GIUSEPPE LIO

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