vuoto2

L’Umbria è lenta a riprendersi ma Foligno c’è

Ogni tanto, con toni tra il malinconico e il drammatico, la stampa locale si sofferma sulle fragili condizioni economiche dell’Umbria contemporanea. Perugia e Terni, i due capoluoghi di provincia, sono le città che accusano le crisi peggiori. Dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso Perugia ha visto i suoi gioielli (IBP, Ellesse) finire nelle mani di imprese multinazionali, che ancora oggi inducono periodicamente i lavoratori e i sindacati a preoccupanti fibrillazioni. Alla debolezza perugina ha inoltre contribuito l’andamento altalenante delle sue due università (anche se la principale sta recuperando iscritti), che avevano abituato a rendite da affitti, ma sviluppato poche start up aziendali di tipo innovativo. Tra la fine del ‘900 e l’inizio del 2000 anche Terni ha visto consegnare le sue acciaierie a mani straniere, con ridimensionamenti di attività analoghi a quelli vissuti a Perugia. Pure a Terni, la crescita di piccole e medie imprese intorno alla fabbrica maggiore non è stata particolarmente significativa (Tubificio a parte), e la vecchia Interamnia si ritrova ripiegata tra l’essere un quartiere dormitorio di Roma e un borgo di piccoli negozianti, destinati economicamente a una lenta agonia. Sono mancati ai due capoluoghi i due asset che garantiscono ai territori uno sviluppo dinamico: una classe imprenditoriale innovativa e l’integrazione delle funzioni (industria, servizi, scuola, infrastrutture).
Ebbene, in questo quadro critico (e nonostante l’abitudine al piagnisteo), Foligno rappresenta un’eccezione positiva. La sua forza è costituita dal fatto che le sue fonti di reddito (ma anche di capitale) sono molteplici. Esse si basano su un’industria particolarmente avanzata, specie nella meccanica fine, su un’agricoltura che ha riscoperto circoscritte ma importanti aree di valore (in primis, alcune cantine), su un terziario in cui all’apporto occupazionale del pubblico (Ospedale, Comune, Scuole, Centro nazionale di selezione dell’esercito) si aggiungono le attività mai banali di commercianti e professionisti. Anche Foligno ha vissuto il momento di criticità dovuto al collasso (per saturazione o per cantieri infrastrutturali conclusi) dell’industria delle costruzioni. E lo ha pagato in termini di livelli di sofferenze bancarie superiori alla media. Ma proprio il mix di attività sopra descritto ha permesso alla città di reagire e di mantenere un profilo decisamente migliore di quello delle due consorelle maggiori.
Curiosamente su tale realtà si raccontano, all’esterno e all’interno, due favole metropolitane. Da fuori si sostiene che la fortuna di Foligno si debba alla presidenza regionale di Maria Rita Lorenzetti. Peccato che si dimentichi che i soldi pubblici arrivati a Foligno per il terremoto (serviti a ricostruire la città, ma – colpevolmente – non a innovare e capitalizzare le imprese coinvolte) si debbano all’impegno oscurato di Vincenzo Riommi (stranamente assente alle celebrazioni del ventennale) e che quelli per la nuova SS77 siano da attribuire all’allora segretario del Cipe, sen. Mario Baldassarri di Macerata.
La favola metropolitana locale è che Foligno sia soprattutto la Quintana (indubbiamente c’è anche quella) e che intorno ai suoi palazzi, alle sue memorie e alle sue associazioni si possa avanzare la candidatura a capitale italiana della cultura. Quest’ultimo progetto non sarebbe neppure assurdo, ma occorrerebbe che fosse fondato su un’idea di cultura a 360 gradi. Tale cioè che prevedesse tra i suoi protagonisti i Baldaccini, i Tonti, i Cesca, i Bazzica, i Bartolini, i Pambuffetti, i Caprai, che con il loro impegno di imprenditori permettono alla città l’innovazione, gli investimenti e l’internazionalizzazione che costituiscono i prerequisiti di un’odierna, reale e omnicomprensiva capitale della cultura.

ROBERTO SEGATORI

0 shares

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Skip to content