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Questa parola è dura!

Il 25 luglio di cinquanta anni fa veniva promulgata l’enciclica Humanae vitae, un documento pontificio che si è trovato nel crocevia di un forte conflitto interpretativo. In esso Papa Montini, non discostandosi dal solco della Tradizione, ha messo in luce il legame intrinseco tra amore coniugale e generazione della vita, richiamando l’attenzione sulla necessità di custodire la pienezza del significato generativo dell’intimità coniugale. Recenti studi condotti sulle carte dell’Archivio Segreto Vaticano, di cui Papa Francesco ha autorizzato la consultazione, hanno messo in luce che l’enciclica è il risultato di un articolato processo sinodale che Paolo VI ha guidato con profonda delicatezza. Egli, ben sapendo che la Chiesa deve formare le coscienze – non sostituirvisi! -, non ha rinunciato a confermare i fratelli nella fede, senza strappare alla dottrina sul sacramento del matrimonio il sigillo pastorale originario e costitutivo.
L’Humanae vitae vede la luce in pieno Sessantotto, un fenomeno generazionale in cui matura la contestazione di ogni autorità, che mina in radice i legami primari e istituzionali. Questo clima, sebbene provochi il radicale rovesciamento dei codici morali tradizionali, non impedisce a Papa Montini di mantenere uno stile magisteriale sereno che, “con dolcezza e rispetto”, presenta le ragioni e le motivazioni dell’inscindibile unità tra i due significati dell’atto coniugale, unitivo e procreativo. Salvaguardando questi due aspetti essenziali dell’amore tra un uomo e una donna, Paolo VI non ha temuto di rimanere solo, di essere lasciato solo. Non è difficile immaginare che egli, nel silenzio della solitudine del servizio petrino, abbia sentito l’eco delle parole che nella sinagoga di Cafarnao molti discepoli rivolgono a Gesù: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60). Vedendo anche i Dodici in difficoltà, il Signore non esita a chiedere loro: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67). Questa domanda, senz’altro, è risuonata nel cuore di Paolo VI, il quale ha tenuto fermo il timone della Chiesa, memore della testimonianza di Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68).
Nel 1968 ero ancora troppo giovane per scandalizzarmi ma già in grado, come chierichetto, di avvertire il clima rovente che si respirava in certe sacrestie un po’ snob, in cui si è arrivati addirittura a togliere l’immagine del Papa. Col passare degli anni mi si è fatto chiaro che quel vuoto – segnato sulle pareti annerite dall’umidità più che dall’incenso – era il sintomo, tanto nei pastori quanto nei fedeli, di una latitanza dalla direzione spirituale e di un progressivo esodo dal confessionale, luogo in cui la misericordia di Dio non consacra le debolezze ma assolve i peccati, curandone le ferite e, soprattutto, dando la forza necessaria per riprendere il cammino, sia pure a tentoni e inciampando, verso le vette delle beatitudini. Anche se i piedi non riescono a raggiungerle, l’importante è che gli occhi non le perdano di vista. “Le cime – diceva don Primo Mazzolari – stiano immacolate e pure, per il nostro pianto e il nostro incanto”.

MONS. GUALTIERO SIGISMONDI

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