mala

Ridateci la “Serpa”


Che nostalgia del vecchio, saggio e anche un po’ umano manipolo di malavitosi locali. Di quelli che bazzicavano le bische e spifferavano alla Polizia in cambio di una promessa e mai mantenuta sorta di immunità; che frequentavano ingenuamente solo determinati bar, così ad una
“certa” sapevi dove trovarli e se non ce li trovavi sapevi dove stavano a fare danni; quelli che “baccagliando” la “Serpa” ispiravano il linguaggio di noi ragazzi cresciuti nella bambagia. La “Serpa” era il gergo di strada e di taverna protetto dal vincolo della segretezza o perlomeno della diffidenza, sprezzante ed elusivo, saturo di provocazioni e di umori, in grado di avvincere persino i suoi perseguitati. A giudicare dai quotidiani furti in casa che siamo costretti a subire – con tanto di mazzate affibbiate agli anziani – v’è motivo di affermare che si stava meglio quando si stava peggio. Quando cioè il Pretore Medoro i farabutti li sbatteva nel carcere mandamentale di San Giacomo per una settimana, prima ancora interrogarli e sottoporli a processo, per poi condannarli al termine di una risicata aringa – più che arringa – del primo azzeccagarbugli reperito in Pretura. Almeno li conoscevi per nome e cognome, per data di nascita, residenza e appartenenza agli abituali Caffè. Che nostalgia di quella mala di cui andrebbe tracciata una sorta di biografia, non fosse altro per ricordarne la ridotta aggressività, che il più delle volte si limitava ad furtarello di bicicletta, ad un borseggio durante la fiera di San Feliciano o ad una irruenza espressiva con cui gli smargiassi – can che abbaia non morde – esprimevano un linguaggio capace di un rapporto totale con la realtà rappresentata, persino stimolante per il sociologo. Oggi, crollati gli inveterati pregiudizi, cosa rimane di quella realtà popolare? Non ci rimane altro che raccogliere i vetri dei cristalli infranti (a Foligno a decine nel giro di poche sere) per rubare i pochi centesimi lasciati all’interno delle nostre auto.

GIOVANNI PICUTI

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