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Non basta un quiz per formare un buon docente

La vicenda del maestro che si è confrontato con un esperimento sociale ingenuo e discutibile muove critiche generali. Apre, però, a una riflessione – quasi un mea culpa – più profonda: la formazione dei docenti. Non di rado si colgono le voci di studenti che lamentano “professori che rubano lo stipendio” perché non preparati in maniera adeguata. Lungi dal generalizzare e consapevole degli occhi critici necessari a leggere simili affermazioni, non si può ignorare come oggi si diventa insegnanti. La garanzia di una stabilità professionale è lontana e lascia il posto alla precarietà: status certo condiviso con tante altre categorie, con la conseguenza, però, di aver suggerito scappatoie alquanto discutibili. Un esempio tra tutti: la corsa alla cattedra di sostegno. Il problema non è, ovvio, il desiderio di vedersi “sistemati” e, quindi, di cogliere tutte le opportunità che lo Stato e il Ministero offrono: è più che legittimo. Come è d’obbligo riconoscere la professionalità, la dedizione e la vocazione di tanti insegnanti. Il punto sta nel come si viene formati per prepararsi a essere professionali, dediti, “chiamati” alla professione di insegnanti. Abbandonata la SSIS, si è fatto spazio al TFA per correre ai ripari con il FIT: tante sigle in cui la corsa al conseguimento di crediti per garantirsi l’accesso al concorso è aumentata, la preparazione didattica e pedagogica diminuita. Trenta domande a crocette hanno vagliato e riconosciuto la preparazione in ambito psicologico, pedagogico e didattico dei nuovi docenti. Alla coscienza personale lo studio, con qualche (e non poca) perplessità sui criteri di svolgimento della prova.

L’esperienza personale e diretta mi porta a confrontarmi con la preparazione dei ricorsisti che partecipano al concorso straordinario per insegnanti (quanti, cioè, hanno avuto riconosciuto il diritto a sostenere il concorso per insegnare alla scuola dell’infanzia e primaria con il solo diploma magistrale). A fronte di commissioni giudicate vessatorie e discriminanti, si racconta di candidati fino al giorno prima estetisti o costretti dai propri genitori a cercare una stabilità economica dopo anni di supplenze, che hanno colto l’opportunità del concorso cui, in sostanza, non si può essere bocciati. Si tratta pur sempre di eccezioni, certo, ma sono gli stessi che entreranno in classe con i nostri figli, senza dover andare a cercarne troppi fuori regione. Lacunoso è anche il mondo del sostegno: “nomen omen”, deve essere di aiuto, di sostegno, di affiancamento alla classe e, soprattutto, all’alunno con criticità. I posti restano vuoti e allora si attinge a tutte le graduatorie incrociate di prima, seconda e terza fascia (dai docenti ordinari e abilitati ai supplenti non abilitati) e c’è chi considera l’esperienza come “l’anno alle Maldive” perché lo studente è abbastanza autonomo e fa da sé. Più dell’insegnante su cattedra, il docente di sostegno è prezioso e fondamentale per una buona crescita dell’alunno, il suo processo di integrazione scolastica e di costruzione dell’autostima e dell’autonomia. Anche in questo caso, si corre ai ripari con corsi di formazione e aggiornamento in itinere per il malcapitato docente non già specializzato durante l’incarico stesso. 

Si arriva poi agli estremi, ai così detti diplomifici che garantiscono la massima resa, il diploma, con il minimo sforzo… ma non la minima spesa. Anche qui eccezioni. Resta sempre fermo il discorso che si tratta di realtà paritarie, quasi mai statali, concentrate solo in alcune città, e cui le scuole private purtroppo a volte si trovano a far gioco in ragione di un budget da conseguire. Vero pure che si tratta di realtà dove arrivano i famosi “scarti” della scuola pubblica. Il ragazzo arrestato per spaccio che finisce in comunità e ne esce dopo tre anni. Quello che deve andare a processo. La diciottenne che scopre di essere incinta e vuole abortire. Quella abbandonata dalla famiglia e che ha tentato il suicidio. Il giovane con problemi psichiatrici ignorati dalla famiglia e che minaccia di uccidere i compagni di scuola con un coltello. Tutti scarti: che, però, hanno diritto a riscattarsi. Scarti che hanno sbagliato, anche tanto e forse troppo, ma che hanno bisogno di riavere fiducia. Scarti ai quali va garantito un nuovo oggi. Scarti che non si possono abbandonare e che hanno diritto di insegnanti formati, preparati ad aiutarli. Non solo con la laurea e il dottorato. Non solo con il titolo di studio e le pubblicazioni, che sono altrettanto importanti e doverosi, perché bisogna trasmettere anche dei contenuti, un sapere competente e reale. Ma anche docenti con competenze pedagogiche e didattiche acquisite in tempo, perfezionate sì sul campo di battaglia, ma capaci di offrire in anticipo uno strumento di dialogo, di comprensione, di ascolto per accompagnare nella crescita i giovani di oggi. Dal bambino dell’asilo al diciottenne che vota. Giovani di oggi che saranno gli adulti e la società di domani. Trenta domande a quiz davvero bastano a tutto ciò?

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