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Il conoscente (come si cambia per non morire)

Cammina in viale Firenze a testa bassa per non inciampare, il mio conoscente. Me lo ricordo vestito da comunista, se così si può dire, quando ancora nella Foligno dei conti squattrinati non erano i conti (in banca) a fare la differenza, ma le sfilate di moda offerte agli studiosi del costume seduti ai tavoli del Sassovivo. Da ragazzo aveva suscitato la mia ammirazione. Nell’insieme apprezzavo la sua apparente trasandatezza, l’eskimo, il ciuffo irriverente e quel paio di suoi logori pantaloni di flanella lustrati dall’uso. Oggi indossa le insegne della rispettabilità: un Borsalino fasullo, un paltò di simil cammello e un doppiopetto marrone. Gli anni passano e le ideologie crollano, ma è nel vestirsi che ciascuno di noi esprime il proprio mutevole modo di sentire. Mi squadra dai piedi alla testa e, beffandosi del mio guardaroba, mi chiede: “Ma sei quel Giovanni lì? Faccio cenno di sì, che sono quel Giovanni lì. E ancora: “Ti vesti alla Salvini?”. Con imbarazzo mi giustifico dicendo che ero di ritorno da Bevagna dove – schiena permettendo – coltivo un piccolo orto populista. Il conoscente si fa una grassa risata e mi racconta di aver lavorato nella pubblica amministrazione, ma che da un paio d’anni a questa parte si gode signorilmente la pensione. Mi complimento con lui, senza aggiungere quello che mi diceva sempre mia madre: “È meglio una fodera di onesto coniglio nero che una pelliccia di finto agnello tinto”.

GIOVANNI PICUTI

 

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