Erminia

Foligno «riscopre» Torquato Tasso

Questa storia di Erminia risale a vent’anni fa. Quando Guglielmo Tini (che è totalmente pazzo, è bene che si sappia. Mi trascinò al Civico di Pordenone per un bozzetto in piena estate ed a Napoli, al Palazzo Reale, per l’Erminia tra i pastori del Toma, in pieno inverno: non lo sfiorò neppure l’idea che si potesse fare il contrario e fare un bagno alle Rocce Verdi o a Trentaremi); comunque, quando mi disse di capitare a Foligno e di andare a dare un’occhiata al Candiotti non me lo feci ripetere due volte, anche perché il tizio di cui sopra è pazzo ma di gradevolissima compagnia. All’inizio Erminia non era neanche Erminia, ma Armida: che è come dire il diavolo e l’acqua santa. Nel depliant che Guglielmo mi aveva inviato a Ferrara e che, verosimilmente, era stato stampato per l’apertura al pubblico dei luoghi architettonicamente rilevanti della città, si leggeva Stanza di Armida. Guglielmo lo aveva sottolineato a penna e sopra Armida aveva scritto Erminia. Dunque non si trattava della maga affascinante e procace che seduce Rinaldo, ma della decaduta principessa di Antiochia, una figura elegiaca e patetica, sensualmente tranquilla. E del resto, per aver sonni tranquilli, affrescare una camera con le gesta eroico-erotiche di Armida non sarebbe stato neanche strettamente indicato: voglio dire, non siamo a Pompei e questa non è la camera segreta dell’Archeologico di Napoli. Fatto sta che quando entrammo nella stanza in questione, al Candiotti, un po’ sorpreso, devo ammetterlo, rimasi. Cicli pittorici dedicati ad Erminia ne avevo già visti molti. L’iconografia tassiana, specificatamente quella legata alla Liberata, indulge con favore a raccontare l’unica parentesi idillica del poema. Insomma dai Carracci al Guercino, da Poussin a Lanfranco ciascuno dà un’interpretazione del dramma, in modo da lasciare sulla tela la sensibilità degli anni in cui ricade la fruizione di un’opera così impegnativa come la Gerusalemme Liberata. Ero abbastanza preparato ad una ennesima Erminia, ma le tele del Candiotti mi parvero subito molto particolari. Non tanto per la qualità del tratto pittorico (primi del Settecento, probabilmente), quanto perché ripercorrevano – e questo mi fu subito evidente – con rara fedeltà l’ottava del Tasso: non conosco altri cicli pittorici che si soffermino in modo così letterale sulle ottave comprese fra l’arrivo di Erminia tra i pastori e il trasporto di Tancredi ferito. Mi toccò dare ragione a Guglielmo (e fu una fatica), che se ne stava vicino al caminetto di quella incredibile stanza, stava zitto e ridacchiava. Gli consigliai di fare un bel servizio fotografico di tutto l’ambaradan e di concorrere al Premio Tasso con una descrizione delle opere. Pur non essendo in alcun modo uno storico dell’arte, Guglielmo seppe tirar fuori quel piccolo studio rigoroso e severo che poi venne effettivamente pubblicato in Studi Tassiani, XLV, 45 (1997) e nella rivista Bergomum della Civica Angelo Mai (XCII). So che l’estratto è alla Dante Alighieri di Foligno ma, lo dico anche se mi costa dirlo, a me è capitato di trovarlo anche in Francia, segno di un interesse al discorso artistico legato al Tasso che non è di poco conto. Mi fa piacere che la Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno abbia voluto promuovere questo incontro sulle tele tassiane del Candiotti. Conosco Foligno per sant’Angela e per la prima edizione a stampa della Commedia. È giusto che Foligno sia la città della Quintana e dei Primi d’Italia, ma certo mi ritorna con prepotenza in mente quello che Guglielmo mi diceva appena usciti dal Candiotti: «Siamo una città tassesca e non lo sappiamo». Allora, vecchio mio, è ora di farglielo sapere. Con le tele del Candiotti Foligno è, a tutti gli effetti, una città tassesca. Hai ragione tu, vedi? Lo ammetto. Riservami un posto per venerdì sera, che sto arrivando.

Antonio Cordova Rivolta

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