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Umbria: gli indicatori economici sono impietosi

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Dati preoccupanti, contraddizioni e incapacità politiche emergono dal rapporto dell’AUR

Quale contadino perderebbe tempo ad irrigare un piazzale di breccia sperando che si trasformi in un campo di grano? Mi sembra più o meno questa la pretesa di chi si affida ai mitici “Incentivi Europei” per risollevare le sorti di una regione che il recente rapporto economico e sociale dell’AUR (Agenzia Umbria Ricerche) rappresenta con tinte foschissime. La regione Umbria, amministrata in continuità dalla sua costituzione da PC-PDS-DS-PD, vanta negli ultimi dieci anni indicatori economici peggiori della media nazionale ed in alcuni casi anche delle regioni del sud. Ne elenchiamo alcuni.
Dal 2008 la regione ha cumulato quasi 11 punti percentuali di perdita di PIL (contro i 7 italiani), superando persino il Mezzogiorno (-10,3%).
La produttività del lavoro, misurata in PIL prodotto per ogni unità di lavoro (ULA), nel periodo 1995-2012 ha avuto una flessione in Umbria pari allo 0,5% mentre su base nazionale il saldo è positivo (+0,88%). È interessante notare come tale diminuzione della produttività sia iniziata ben prima della crisi partita nel 2008.
Il PIL pro-capite dal 2008 al 2012 è diminuito in Umbria del 2,85% contro la media italiana dell’1,9 e la spesa per consumi finali delle famiglie è diminuita di 8,9 punti percentuali (dato Italiano 8,4%). Per comprendere la malattia che affligge il tessuto economico locale e, dalla diagnosi, azzardare una terapia, non ci si può limitare all’esame dei dati macroeconomici. Nella sua introduzione al rapporto il presidente dell’agenzia Carnieri indica nella “creazione d’impresa” “l’asse portante e strategico di nuove politiche pubbliche”, ma il modello economico regionale è quanto di più lontano da un ambiente che favorisca l’impresa privata. Il reddito disponibile delle famiglie si mantiene su livelli accettabili solo grazie alla maggior quota delle prestazioni sociali e la produttività dell’industria in senso stretto in regione è del 18% più bassa della media italiana! Quanto siano riusciti a realizzare i vari bandi diretti alla creazione di imprese innovative che si sono succeduti dal 2000 a oggi lo descrive ampiamente Mauro Casavecchia nel suo studio all’interno dello stesso rapporto AUR. Poco più di niente. Eppure lo stesso autore non abbandona la speranza che qualcosa possa accadere continuando ad irrigare il piazzale di breccia, magari anche con maggiori quantità d’acqua. “È opportuno, scrive, agevolare la fioritura di numerose esperienze, anche perché su questo versante, ipercompetitivo e dinamico, con rischi di insuccesso molto forti, è bene che il processo di selezione naturale possa contare su una larga platea di soggetti”. Io credo che potrebbero volerci millenni prima che la selezione naturale faccia prevalere il grano tra le mille erbacce che possono nascere sul piazzale irrigato! E se qualche pianta buona potrà svilupparsi tra le altre, abituata all’irrigazione artificiale probabilmente non sopravviverà alla prima siccità…
Insomma, se l’impresa nasce e cresce per una sua interna forza propulsiva, allo stesso modo di una pianta, solo la selezione del seme, la scelta e la preparazione del terreno possono garantire una buona probabilità di successo. Se quindi il futuro dell’economia regionale dipende dalla capacità di generare nuova impresa, bisognerà innanzi tutto incentivare lo spirito imprenditoriale, attraverso azioni formative e culturali che non sono di breve durata. Bisognerà scrollarsi di dosso il mito del posto fisso, dell’amicizia politica per trovare impiego, del posto pubblico dal quale nessuno potrà mai più scalzarti. Bisognerà ipotizzare strategie per rompere la rigidità delle strutture sociali che portano i figli ad ereditare il lavoro dei padri (espressione coscientemente misogina). Bisognerà infondere speranza, fede nel futuro. Bisognerà rendere fattivo ed attuale il principio in base al quale è chi ha buone idee e lavora sodo ad avere successo, non chi ha buone relazioni.
Fin qui il seme, e non è poco. Quanto al terreno, quello senza il quale neanche il seme più promettente ha alcuna speranza di germogliare, non c’è da illudersi. La terra viene da lontano, non basta una vangata… Ci sono in mezzo i sassi della burocrazia per cui le imprese disperdono energie in incombenze sacrosante, ma estranee all’obiettivo primario di generare reddito e lavoro. Sassi che, naturalmente, le grandi piante nemmeno avvertono, ma schiacciano i piccoli germogli appena spuntati. Ci sono gli acquitrini della giustizia che dà a tutti un’unica sconfortante certezza: la lunghezza! Ci sono i parassiti, le piante endemiche… Fare in modo che il seme cada nel terreno buono è lavoro ancora più lungo e faticoso di quello della selezione del buon seme. E non è opera che un territorio può fare da sé, stretto com’è tra i vincoli europei e le limitazioni statali. Ma da lì occorre cominciare. Predisporre le condizioni affinché l’impresa possa nascere e svilupparsi anziché pretendere di poterne artificialmente forzare la creazione è compito della politica. Almeno di quella capace di guardare un po’ oltre il ristretto orizzonte di una legislatura che, tra l’altro, volge ormai al termine.

VILLELMO BARTOLINI

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