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Il lavoro che vogliamo e la cultura dello scarto

Partiamo da alcune provocazioni. Oggi è più difficile trovare un lavoro o un lavoratore? Perché in Umbria e a Foligno diminuiscono le opportunità di lavoro? Ma (il lavoro) lo cerchiamo e lo vogliamo davvero? Il lavoro che crea dignità e indipendenza è solo quello che ci piace? Ha senso parlare di integrale sviluppo della persona umana nel lavoro? Il prossimo convegno organizzato dall’Ufficio per la Pastorale del lavoro della Diocesi che si terrà il 16 marzo a partire dalle 17.15 all’interno dello stabilimento di Sant’Eraclio della Lechler Spa ha una grande ambizione: ragionare a più voci sulle proposte emerse nella “Settimana sociale” di Cagliari di pochi mesi fa. Il sottotitolo del convegno recita “Imprenditoria, partecipazione, territorio”: l’impresa al servizio della comunità, ecco il fil rouge dell’incontro. Ma siamo dinanzi a concetti complessi e interconnessi, poiché l’impresa per valorizzare un territorio necessita di una classe politica in grado di venirle incontro, ma nello stesso tempo la comunità può diventare linfa vitale solo per un’imprenditoria che non abbia come unico orizzonte il profitto ad ogni costo e il ribasso di ogni costo. Il “secolo del lavoro”, come è stato definito il ‘900 dal sociologo Aris Accornero, sembra ormai una realtà lontanissima. Basti pensare che con il concetto di post-verità siamo arrivati al punto di determinare la perdita di importanza della verità stessa, magari può accadere che tecnica, finanza e mercato ci conducano nell’era del post-lavoro. I diritti e le tutele sono sempre più percepiti solo come costi e privilegi, anche perché molto spesso appannaggio di pochi rispetto al numero crescente di coloro sono costretti a farne a meno. L’impianto normativo cerca di rimanere in piedi attraverso dei correttivi che tentano di adeguarsi alle esigenze del mercato globalizzato e senza freni: possiamo ancora resistere alle logiche del turbocapitalismo planetario e immaginare l’uomo al centro dell’universo? L’economista Luigino Bruni (“Le imprese del patriarca”, EDB 2015) ci ricorda che ieri e oggi i contratti possono produrre e producono diseguaglianze crescenti e conflitti, perché diventano strumenti per impoverire la parte più debole dello scambio. I forti e i deboli esistono e restano tali anche quando firmano «liberamente» contratti. Se l’ottica è quella dell’umanesimo non bastano i pur necessari e spesso indispensabili contratti, occorrono dei patti, è di primaria importanza riscoprire cioè una finalità comune tra impresa e lavoratore. Chi crea lavoro deve essere agevolato e valorizzato, chi lavora, come ci ricorda Papa Francesco, non deve essere ‘ucciso’ dalla precarietà e dal lavoro nero né schiavizzato dal lavoro domenicale e festivo. Si fa strada una cultura dello scarto che considera il lavoro nulla più di una merce: il più delle volte viene così considerato il lavoratore, utile solo al raggiungimento di finalità economiche, ma accade pure che venga rifiutata la richiesta dell’impresa, perché si considera dignitoso non il lavoro in sé ma solo quello socialmente ritenuto appagante, comodo e remunerativo.

ENRICO PRESILLA

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