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Famiglia per vocazione

A Bevagna siamo andati a conoscere Guido e Francesca, che hanno fatto dell’accoglienza il proprio cammino

Arrivo al Convento dell’Annunziata di Capro di Bevagna su invito del direttore della Gazzetta: “C’è una casa-famiglia dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, è un’esperienza interessante”. Li vado a trovare e mi accorgo subito che l’espressione “casa-famiglia” può essere fuorviante. Sembra una di quelle etichette che usiamo per tranquillizzarci di fronte alle realtà che non riusciamo a capire. Dare un nome alle cose è un modo per possederle, per esercitare un controllo, per dire “ho capito” e spesso “non mi riguarda”.

Mi accoglie Guido. Entriamo in casa. Nel salone c’è un ragazzo che gioca alla Playstation, un altro più piccolo è per terra, un altro ancora fa merenda insieme alla mamma. C’è un nonno che gioca un po’, poi saluta e torna a casa sua. Come in ogni casa, come in ogni famiglia. Qui però i figli sono un po’ più della media e hanno la pelle di diversi colori.
Non ci si sente in una “casa-famiglia”, ma, più semplicemente, a casa di Guido e Francesca. Lui è un pediatra e lavora all’Ospedale di Foligno, lei è una casalinga laureata in Scienze dell’educazione. Hanno cinque figli, tra affido ed adozione, tre di loro sono disabili. Ospitano una ragazza indiana, anch’essa disabile. Li aiuta una “sorella di Comunità”. Per i bambini ho usato dei nomi convenzionali: Alba ha due anni, Bruno e Carlo ne hanno sette, Daniele diciassette ed Emilio diciotto. Mi faccio raccontare la loro storia.

Francesca: Ci siamo conosciuti all’Università e fidanzati nel 1998. Eravamo tutti e due impegnati in Chiesa, ma non avevamo ancora aderito in pieno a quello che ci veniva annunciato e che noi stessi annunciavamo.
Ne sentivamo la bellezza, ma ci accorgevamo che stavamo vivendo un’altra cosa. Abbiamo cominciato a frequentare la catechesi dei Dieci comandamenti e ci ha cambiato la vita.
Finito questo cammino, abbiamo cercato un luogo per vivere in modo più profondo quello che avevamo incontrato. Abbiamo girato per vari movimenti, poi, per caso, ci siamo imbattuti nella Comunità Papa Giovanni XXIII.
Come è avvenuto l’incontro che vi ha portati fin qui?
Guido: Un seminarista nostro amico ci ha invitati a Vicenza a “casa sua”. Apparteneva alla Comunità Papa Giovanni XXIII. Ci ha fatto conoscere i suoi amici e tra questi c’era una famiglia che faceva l’esperienza che ora facciamo anche noi. In una casa colonica c’era una marea di bambini che giocavano attorno ad una piscina. Ho guardato Francesca e le ho detto: “Io voglio questo”.
Che cosa in particolare vi ha colpito?
La vita che esplodeva da ogni parte. Non avevamo idea di cosa fosse la Comunità, ma quello che vedevamo era per noi.
Eravate poco più che ventenni, non avete avuto paura delle difficoltà che avreste incontrato?
La semplicità delle persone che conducevano quest’esperienza ci ha fatto capire che non aveva senso rinunciare al fascino che intuivamo dicendo “non siamo capaci”.
In cosa consiste l’appartenenza alla Comunità Papa Giovanni XXIII?
È una vocazione particolare all’interno della Chiesa, con una struttura e un carisma propri. È stata la nostra “vocazione”: abbiamo capito che vivere questa forma era una cosa buona per la nostra vita.
Il cammino nella Comunità comincia con un periodo di verifica. Ci ha fatto capire che la vocazione alla santità è appunto un cammino. Se per rispondere si dovesse aspettare di capire tutto e di essere capaci, non si partirebbe mai. Le regole che danno forma alla nostra esperienza sono: la vita di fraternità, la preghiera, l’obbedienza e la povertà.
Cosa vuol dire in concreto l’obbedienza?
Abbiamo un responsabile con cui ci confrontiamo sui passi che dobbiamo affrontare, è un modo per non correre invano. È la forma che la Chiesa ci dà per capire se il cammino che stiamo facendo è conforme alla volontà di Dio.
E la povertà? Con una famiglia e cinque figli da crescere cosa significa vivere la povertà?
In primo luogo cerchiamo di non avere beni. Era una delle intuizioni a cui don Oreste teneva di più. Non possedere ci rende più liberi di seguire la chiamata dello Spirito. E ci rende pure catalizzatori di carità.
Ad esempio?
Questa bellissima struttura in cui viviamo non è nostra. I frati ci ospitano con un comodato ventennale. Se avessimo avuto una casa nostra, sarebbe stato più difficile accettare la chiamata a venire qui. Inoltre se non hai, sei costretto a chiedere. È un modo per farsi ultimi e per dare agli altri la possibilità di santificarsi dandoti aiuto.
È una forma di evangelizzazione, che non avviene con un discorso ma per trapianto vitale. Noi due viviamo un’esperienza che sarebbe molto al di là delle nostre forze. Eppure è possibile perché c’è tanta gente che ci aiuta a camminare. E siccome la carità è contagiosa, chi ci aiuta s’innamora del nostro modo di vivere ed è più contento. Sono tanti quelli che, aiutando noi, si scoprono capaci di una gratuità che non immaginavano e diventano testimonianza anche per noi.
Chi sono, in genere, i vostri confratelli?
Ci sono sacerdoti, single e famiglie. Ognuno cerca, nella sua specifica condizione, di vivere il carisma della Comunità fondata da don Oreste. Ci incontriamo con un piccolo gruppo tutte le settimane, preghiamo insieme e condividiamo il vissuto quotidiano, è un momento molto importante. Poi una volta al mese ci vediamo con un gruppo più grande (la “zona”) e una volta l’anno con tutta la comunità.
La nostra “zona” comprende l’Umbria, l’Abruzzo, il Molise e parte delle Marche. Siamo circa 50 persone. Alcuni hanno una casa-famiglia come la nostra, altri fanno accoglienza in contesti più ampi di quello familiare, altri invece vivono la loro vocazione in una quotidianità più comune.
Torniamo alla vostra storia. Come è iniziata l’avventura dell’accoglienza?
La nostra casa nasce come fioritura di ciò che desideravamo dalla vita. Appena sposati, don Oreste ci ha proposto di accogliere un ragazzo albanese di 16 anni. Io avevo 23 anni. Poi è arrivata una ragazza madre con il suo bambino. È stata con noi un anno e mezzo, l’abbiamo aiutata a trovare un lavoro e a rendersi indipendente. È stato il nostro inizio. I miei parenti, scherzando, ci dicevano che eravamo diventati, in un colpo solo, nonni e genitori. Queste sono state esperienze di accoglienza temporanea. Poi sono arrivati i nostri “piccoli”: prima Bruno, poi Carlo. Il primo ha una grave disabilità, l’altro ha problemi di salute che lo hanno costretto un anno in ospedale. Nel frattempo abbiamo ospitato un ragazzo che aveva problemi di alcol: ha fatto un bellissimo cammino di conversione e ora anche lui ha una casa-famiglia.
Sono tante le persone che abbiamo incontrato, tante le storie, molte belle, altre meno fortunate. Ma il nostro problema non è l’esito, quello sta nelle mani di Dio.
Come vivono i vostri figli questa “famiglia” così particolare?
Uno dei piccoli si lamenta perché siamo in pochi e vorrebbe altri fratelli con cui giocare! Ma l’esperienza più sorprendente sono i grandi. Prima di prendere una decisione, ci confrontiamo sempre con loro, perché accogliere un’altra persona incide sulla vita di tutti. Daniele, che ha 17 anni ed è entrato nella nostra famiglia 5 anni fa, quando gli abbiamo parlato di un altro ragazzo che aveva bisogno di ospitalità, ci ha detto: “la mia vita è cambiata per il sì che voi avete detto, non posso negare a nessuno questa esperienza”. Anche loro crescono con una generosità che ci sorprende in continuazione. Al fratello gravemente disabile, pochi giorni fa, ha detto che quando noi saremo vecchi lo prenderà con sé, perché i suoi figli avranno bisogno di uno zio. È una fratellanza molto più profonda di quella che nasce dall’avere la stessa madre biologica.
I vostri figli sono adottati, ma avete vissuto anche esperienze di affido. Qual è la differenza?
Con l’affido fai un’esperienza di amore completamente gratuito. Il figlio non sarà mai tuo, lo devi crescere per un tratto di strada, e devi seminare tutto quello che prima non è stato seminato, con la speranza che questo possa accompagnarlo anche nella vita futura. Il distacco poi è sempre doloroso e deve essere preparato bene.
Siete qui a Capro di Bevagna da un anno. Come siete stati accolti?
Abbiamo ricevuto un’accoglienza che ci ha stupiti. Stanno nascendo amicizie con tante famiglie. Per Natale praticamente tutto il paese è venuto a farci gli auguri e a portarci una tanica del loro olio nuovo, “l’olio per i bambini”. Ci portano le marmellate che fanno in casa. Chi va al cimitero qui vicino spesso passa a salutarci. Ma c’è di più. La ragazza indiana che ospitiamo frequenta le scuole serali. Per come è organizzata la nostra famiglia, per noi era impossibile accompagnarla. La gente del paese si è organizzata per trasportarla ogni sera. Nella società attuale, il fatto che delle persone decidano di mettere sistematicamente a disposizione il loro tempo in modo gratuito per un altro è un grande dono per tutti.
Poi ci sono i ragazzi dell’oratorio di Bevagna. Ci vengono a trovare una o due volte alla settimana, fanno fare la fisioterapia a Bruno, giocano con Carlo e con gli altri e riempiono ancor più di vita la nostra casa.
Avete rapporti con le istituzioni locali?
Anche le istituzioni si sono mosse per i nostri figli. Quelli che frequentano le scuole materna ed elementare sono disabili. Non era scontato che venissero accolti con la disponibilità che invece abbiamo incontrato. Le mamme sono contente e ci ringraziano per la ricchezza che i nostri figli portano in classe. Anche il sindaco ci ha ringraziato, e non solo perché permettiamo alla scuola di rimanere aperta. Scuola e Comune sono sempre disponibili alle nostre necessità, la cultura dell’accoglienza è più diffusa di quanto si possa pensare.
Non avete mai pensato “chi me lo ha fatto fare”?
“Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. È il Vangelo che abbiamo letto durante il nostro matrimonio. La nostra vita è la verifica continua di questa promessa.

© Gazzetta di Foligno – MAURO PESCETELLI

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