chiostro

Suor Maria Benedetta, una clarissa nel Monastero di S. Lucia a Foligno

Il 22 luglio 1424 giunsero da Sulmona a Foligno cinque suore clarisse che chiesero accoglienza e rifugio. Furono i Trinci, signori di Foligno, alla cui famiglia apparteneva il b. Paoluccio Trinci, iniziatore dell’Osservanza nell’Ordine francescano, che offrirono loro come alloggio la Torre con orto e giardino e l’annessa chiesa di S. Lucia, in cui lo stesso b. Paoluccio aveva trovato rifugio. Nacque così il Monastero di Santa Lucia: primo monastero dell’Osservanza femminile clariana dell’Italia centrale. È qui che ho incontrato suor Maria Benedetta, una figlia della nostra terra.
Da quanto tempo vive nel monastero? Ha un ricordo particolare legato alla vita in convento?
Sono nel monastero dal dicembre 1986; sono passati tanti anni, eppure sembra ieri. Ci sarebbero tante cose da raccontare, ma ricordo un episodio che mi ha fatto riflettere molto: gli occhi di un ragazzo della vicina scuola media che voleva offrire aiuto, anche una semplice chiamata con il suo telefonino, (ci teneva molto), per un incendio scoppiato nel monastero, nonostante fossero presenti alti e poderosi vigili del fuoco. La voglia di essere lì, che dimostrava la tenerezza del Signore verso noi suore, faceva ripensare a quel ragazzo di 2000 anni fa con cinque pani e due pesci: poca cosa, poco consapevole di quello che si poteva fare, eppure, un mezzo nelle mani misteriose di Dio.
Quale significato ha avuto ed ha la fedeltà nella sua vita?
Il discorso della fedeltà non si improvvisa, per prima cosa però mi sento di dire che la fedeltà non si può imporre, si accoglie. Nel monastero non ci stai per forza, non osservi la regola per forza; la fedeltà parte da un incontro fatto, lì dove hai sperimentato qualcosa di più grande, che non soltanto ti affascina, ma che hai percepito come una realtà che ti innamora. Diverso tempo fa ci veniva detto che il tempo dell’innamoramento è il tempo in cui lui vede lei, e viceversa, senza difetti, poi l’innamoramento lascia spazio all’amore, alla vita, alla realtà e vengono fuori tutti i punti neri. Lo sguardo, però, che vede l’altro così com’è, è quello dell’innamorato, perché vede la persona come l’ha pensata il Signore, nella sua bellezza. C’è poi tutto un percorso di conoscenza in cui man mano si cammina verso quella meta che… è il punto di partenza!
Quello sguardo di innamorato è lo stesso sguardo di Dio. Ho riflettuto molto su ciò e mi sembra che questo riguardi il cristiano, la persona consacrata: Dio ci guarda con lo sguardo dell’innamorato e ci vede belli. La nostra vita è camminare lasciando che il Signore ci faccia belli così come ci vede: con gli occhi dell’innamorato.
Questo sguardo innamorato come è possibile coglierlo?
La beata Angela diceva che il Signore non si nega a nessuno di quelli che lo cercano, per cui c’è una responsabilità anche nostra. Noi pensiamo che Lui si manifesta a chi vuole e raramente, ma il nostro cuore avverte altro, perché ha una nostalgia diversa; è qui che si aggancia la fedeltà. La fedeltà non è un’illusione, è possibile perché c’è una grazia che hai sperimentato, un’esperienza che hai vissuto e che non ti permette di tornare indietro. Sai che sei quello che sei perché hai conosciuto il Signore e hai fatto la sua volontà: il Signore ti ha guardato, ti ha custodito e dove c’era una situazione che sembrava assurda, Lui ti ha aperto la strada, Lui ti ha fatto sperimentare il passaggio dalla morte alla vita. Rinnegare tutto questo significa rinnegare se stessi. Così si spiega la fedeltà. Se io ho fatto un’esperienza reale, cerco di ritornarci, pur faticando, perché so cosa c’è alla mia origine e la nostalgia della meta sarà legata a quella mia origine. Credo che soltanto dal cuore nasca la fedeltà, che non è meccanica, non è un’idea, è una vita che cammina verso una Persona. Si cammina e si impara a camminare verso un’umanità redenta, la redenzione passa attraverso il Calvario e necessariamente per la croce e per la morte.
La vita claustrale come si concilia con la necessità di essere distaccate dal mondo, ma nel mondo?
Dal punto di vista umano non siamo più capaci di riconoscere l’importanza di ciò che non ci serve, il gusto di constatare che c’è una bellezza, che forse “non serve” a niente, però mi richiama ad altro, ha il sapore della gratuità. Non è una cosa che vale perché l’ho fatta io, perché l’ho costruita io, perché mi serve, perché mi è utile, ma solo perché è gratuita, ed ha la capacità di stupirmi e anche di meravigliarmi. Questa bellezza spesso la perdiamo e dimentichiamo che la vita non è solo l’aspetto dell’utile materiale. La stessa logica talvolta è presente nei rapporti interpersonali, negli affetti, nella famiglia: l’altro mi serve per stare bene e nel momento in cui non mi è più utile, o non soddisfa più le mie attese (o pretese), tutto viene troncato. La persona è strumentalizzata ai propri fini, non è importante per se stessa, perché non viene riconosciuta in lei l’immagine di Dio.
Si avverte una sorta di sfiducia nella figura femminile nella Chiesa, che cosa ne pensa? C’è spazio per crescere?
La donna si apprezza soprattutto nelle relazioni significative, in cui emergono saggezza, pacatezza, verità, delicatezza e così si colloca in quello spazio che le appartiene in quanto cristiana. Ricordo Rolando e Lola, conosciutissimi a Foligno, penso all’importanza di Lola nel ruolo sociale di Rolando. Una coppia inscindibile, che ha mostrato la coscienza della propria ricchezza, della ricchezza dell’altro e della meta verso cui si va.
Gli ambiti dell’amore sono immensi, c’è tanto posto per tutti.

© Gazzetta di Foligno – NICOLINA RICCI

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