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Un consiglio di zio Mario

La cura delle cose qualifica il rapporto tra uomo, mondo e Dio

Da ragazzino passavo l’estate in campagna, a Vittiano, nei pressi della Stazione di Nocera, a casa di zio Mario, mio padrino di cresima e mio maestro in tante cose. Che il suo sapere, però, non fosse limitato alle cose della campagna, anche se da questa prendeva vigore, me ne accorsi quando in prima liceo iniziai a studiare Filosofia e “feci” i “Presocratici”. Mi resi conto allora che diverse teorie attribuite ai filosofi naturalisti già mi erano note in qualche modo grazie alla lettura della natura trasmessami da zio. Il senso della “giustizia”, dell’ordine delle cose, nelle vicende umane come nella meteorologia già mi era noto prima di studiare Parmenide o Anassimandro.
Una sera, ritornato a casa da un’escursione sulle colline dietro Vittiano, mi sedetti accanto a zio che mi fece questo discorso: “Ivo, tu oggi per arrivare a Postignano hai fatto il sentiero che attraversa il bosco di Liberto e prima ancora la strada che passa in mezzo ai campi. Bene, se tu vai a piedi per un sentiero o per una strada, ricordati sempre che quella strada che tu adoperi non l’hai fatta tu ma qualcheduno prima di te l’ha costruita per sé e per quelli che, come te, sarebbero venuti dopo di lui. Allora anche tu quando cammini per un sentiero e trovi una pietra che è venuta giù da una ripa e sta lì a impicciare in mezzo al passo, scansala via. Se un ramo da un albero lungo la strada è cresciuto e ingombra il passaggio, taglialo o scacchialo. Lascia per quelli che verranno dopo di te la strada che non hai fatto tu, ma dove tu sei passato, meglio di come l’hai trovata. Non ti limitare ad usarla ma nel mentre che la percorri curala anche”. Mio zio aveva fatto la terza elementare. Alcuni anni dopo lessi i consigli che il Censore diede al figlio Marco presenti nella Vita di Catone di Plutarco. C’è un passo in cui Catone ricorda al figlio che il valore della nostra vita è misurabile da come (meglio, uguale o peggio) è stato da noi lasciato il mondo dopo il nostro passaggio. Questi due ammaestramenti a distanza di secoli sono manifestazioni del rispetto degli atti e dei fatti proprio di una civiltà basata sulla coltura della terra intesa come culto della stessa. È la cura delle cose che qualifica il rapporto tra uomo e mondo e Dio ed il benedettino labora è legato all’ora perché sono gli atti, non le parole da sole, che qualificano le persone, le epoche, i popoli ed è, comunque, il romano negotium e non il greco otium il fondamento della civiltà della quale mio zio era erede e testimone come lo era stato a suo tempo Catone. Il suo ammaestramento mi viene in mente quando sento esaltare l’ambiente “incontaminato” dall’uomo che si traduce nei fatti in oziosa incuria magnificata in modo saccente quanto insipiente “come rispetto della Natura”. Mi appaiono allora le stoppie del grano sulle quali era una sfida camminare a piedi scalzi, le “brance” dei pioppi e degli olmi svettati da dare a mangiare alle pecore, le fascine della canapa e i mazzi di rami di salice per fare canestri messi a bagno nelle “trosce” dove alla sera si abbeveravano i buoi. Infine mi si presenta tutto assieme l’ornato del bel paesaggio agrario umbro erede e testimone di millenni di civiltà che era ancora in essere fino a cinquanta anni fa. Era civiltà nelle cose e nelle persone delle quali la cura operosa e produttiva era il fondamento. Il bello era frutto indotto della cura del bene e del buono che erano la causa e il fine. Povero, brutto e cattivo è il volto attuale di tanta parte del paesaggio collinare e montano dove, dismessa l’agricoltura, tutto è ridotto a incolta “selva selvaggia” che ammanta con un cimiteriale e uniforme verde amazzonico, non contraddittorio col frammisto dilagare del cemento, ciò che era campi e vigne. Spazio orrido e improduttivo popolato da dannefici fiere “protette” e non più da animali domestici “governati”. Il paesaggio è il frutto dell’opera della gente che vive in un luogo e perciò è anche lo specchio fedele della sua natura.

IVO PICCHIARELLI

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