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Il campanile e il campanello

Secondo un’antica consuetudine pastorale, prima della festa di Pasqua i parroci e i loro più stretti collaboratori passano di casa in casa a benedire le famiglie che in esse abitano. La scarsità di preti non è riuscita a scardinare questa sana tradizione che offre alla Chiesa, come raccomanda Papa Francesco, l’occasione di “uscire” dalla sagrestia: “nessun luogo è talmente lontano o chiuso da essere inaccessibile a Dio”.
Fino a pochi decenni fa questo appuntamento “pasquale” veniva preparato con cura sia in parrocchia, sia a casa. Il parroco sceglieva con oculatezza, interessando alla questione i suoi viciniori, il dono da portare in ogni abitazione. Al tiepido sole di primavera ogni casa veniva sottoposta ad una rigorosa operazione di pulizia, ovviamente dopo aver scrollato dal camino tutta la fuliggine che il fuoco, durante l’inverno, era riuscito a sedimentare lungo le pareti della canna fumaria. Man mano che si avvicinava la data dell’arrivo del prete l’attesa si faceva sempre più febbrile. Il giorno stabilito per la benedizione si era soliti vestire a festa le camere da letto; si apriva il baule, una sorta di forziere, e si tiravano fuori le lenzuola ricamate e le coperte preziose. Solitamente, il giorno tanto atteso, erano i più piccoli di casa a montare la guardia per dare l’allarme: “Ecco, arriva il prete!”.
Era davvero Pasqua quel giorno! Con trepidazione e gioia grande ricordo tutte le fasi del rito di aspersione: ricevevo in mano il secchiello con l’acqua santa e, in silenzio, accompagnavo il parroco in ogni stanza; al termine del rito egli tirava fuori dalla tasca della talare una manciata di caramelle compiendo lo stesso gesto con cui era solito aspergere. Al termine del rito si faceva avanti il sacrestano che raccoglieva in un canestro le uova che si offrivano in dono e che venivano confezionate come pinoccate. Ben presto venne meno questa consuetudine e me ne dispiacque non poco; tuttavia, la delusione più grande la provai quando il parroco, per la prima volta, arrivò a benedire senza il secchiello ma con uno strano cilindro a forma di astronave. Qualche anno dopo, a causa dell’avanzare degli anni, il parroco chiese di essere dispensato dal fare le scale e gli fu concesso senza esitazione. Quando invece il suo coadiutore propose, “senza consultare nessuno”, di riunire le famiglie del vicinato per consegnare a ciascuna di esse l’acqua santa da portare nelle proprie case, ci fu un grande clamore di cui ancora oggi mi pare di sentire l’eco.
Il ricordo indelebile di quella improvvisazione pastorale mi ha messo al riparo, una volta diventato prete, dal pericolo di archiviare il rito della benedizione delle famiglie. Sebbene le mutate condizioni sociali e pastorali suggeriscano di ripensare tale rito, tuttavia sarebbe un grave errore privarsene. Sono ancora in molti a chiederlo, forse per convenzione più che per convinzione, ma questa è l’ora in cui alla pastorale del campanile occorre preferire quella del campanello, senza rinunciare al suono delle campane e, soprattutto, senza rinunciare alla pastorale a goccia della direzione spirituale a cui è orientata quella a pioggia della benedizione delle famiglie.
“Ecco: sto alla porta e busso” (Ap 3,20): è questo lo stile con cui la Chiesa varca sia le porte delle case, sia i cancelli delle fabbriche, come pure quelli delle scuole – “al di fuori dell’orario di lezione e con facoltà di partecipazione” -, come ha ribadito, di recente, il Consiglio di Stato con una serena e lineare lezione di “laicità inclusiva”, che invita a non eliminare dallo spazio pubblico ogni riferimento religioso. “Il preteso confinamento della religione nello spazio individuale e privato non appartiene alla visione né cristiana né religiosa delle cose, ma neppure alla ragione”.

MONS. GUALTIERO SIGISMONDI

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