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Luigi Frappi, l’uomo e l’artista: “Appartengo alla mia comunità”

Maestro, non se la prenda, ma lo sa che con quell’aria di insofferenza verso il mondo che ha quando la incontro a Bevagna mi incute un po’ di soggezione?
Me la prendo solo se mi chiami Maestro. Dammi del tu.
Non ci penso neanche, Maestro, ho troppo rispetto per l’arte e ammirazione per questo suo distacco nei confronti del prossimo.
In effetti sto diventando intollerante.                                                                                                                                                                                       È per questo che dipinge paesaggi dove non compare l’uomo?
Nei miei paesaggi l’uomo c’è, ma non si vede in azione.
Si spieghi.
Le opere d’arte non si spiegano, o le capisci subito o non le capisci più.
Oggi è di cattivo umore. Se preferisce possiamo rinviare l’intervista ad altra data.
Non cambierebbe nulla.
Non capisco com’è possibile che un artista che poteva avere il mondo ai suoi piedi, invece di trasferirsi a New York, Parigi o Londra abbia scelto l’Umbria per proclamare la sua utopia a gente che magari nemmeno l’ascolta, addirittura rintanandosi a Bevagna.
Ho accettato i miei limiti, cosa che tanti artisti non sanno fare.
Sembra che, a parte la pesca e la fotografia, tutto il resto non la interessi. Mentre le risulta congeniale ciò che ha a portata di mano, che è cresciuto e si è sviluppato con lei.
Vedi, oggi l’arte è diventata una pietanza esotica che si ha il dovere di mangiare, o dire di aver mangiato, per restare al passo con i tempi. Tipo quel pesce cinese, giappones

e. Come cavolo si chiama?
Sushi.
Ecco, il sushi. Io invece da cinquanta anni a questa parte mi nutro quasi esclusivamente di stracchino, pomodori e penne all’arrabbiata. A “El Rancho” di Bevagna. Mi vuoi fucilare per questo?
Non le sembra riduttivo?
Non è mai riduttivo fare quello per cui ti senti portato. Uno dipinge, ma per chi? Per i colleghi? Per i critici che sono sempre gli stessi a Venezia come a Londra e che perseguono solo il profitto? A me preme il giudizio delle persone semplici ma sensibili, che osservando un mio quadro provano un’emozione del tutto simile a quella che ho provato io a dipingerlo. Conosco un barbiere che ha più senso artistico di certi critici d’arte. Chi lo ha detto che un pubblico sia più competente di un altro? Il pubblico dell’arte è andato in malora, distrutto, cancellato per sempre. Non ho rimpianti se le mie opere non sono presenti alla Tate Modern o al Metropolitan. Mi basta aver partecipato alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma, aver emozionato i miei estimatori.
Detta in questo modo non fa una piega. Magari la potremmo accomodare così: questa sua scelta in apparenza sedentaria e localistica restituisce all’artista la dignità che aveva nel Rinascimento, quella di far parte imprescindibile di una comunità.
Può darsi. Ma non confondiamo il Rinascimento con l’arte contemporanea. Anche se mi piace l’idea che qui a Bevagna un pittore appartenga alla propria comunità al pari dello scopino, del farmacista e del medico di famiglia. Avrei preferito dire come il falegname, il fabbro e il sarto, ma ormai gli artigiani si contano sulla punta delle dita. Cerco di reggere la botta e rimango qui a combattere una battaglia contro i mulini a vento, contro la minaccia portata da un certo snobismo, dagli ornamenti culturali superflui di persone che non vogliono più avere a che fare con l’arte, neanche quella del vivere.
Ma lei è contro il nuovo che avanza?
Non è che io sia contro il progresso, ammesso che ve ne sia uno possibile e che invece non stiamo tornando indietro. Io sono affascinato dalla tecnologia. Mi piacerebbe riportare in vita artisti che ricostruissero paesi, città, piazze al segno con i tempi, senza personalismi o voglia di stupire, ma solo di dimostrare che la bellezza può anche essere utile alla comunità. Ma la politica non è più in grado di scegliere persone capaci di operare il bene. Mi rendo conto che invecchiando sono diventato noioso. Pratico la pesca con la mosca per non dare fastidio a nessuno, addirittura ributto in acqua le rare trote che abboccano.
In fin dei conti non è così burbero come la dipingono. Mi sembra anche abbastanza in armonia con il Creato, se non con le Transavanguardie.
Le Transavanguardie le accetto perché passano dal rifiuto della tradizione, propugnato dalle avanguardie, ad una rivisitazione della tradizione stessa. Ma l’arte concettuale “de noialtri” non riesco a strozzarla. Nel mio studio campeggia una massima di Hans Krailsheimer: “Da quando il non saper dipingere è diventato un genere d’arte, giustamente sono aumentate le pretese per questo tipo di pittura”. Tuttavia ammiro artisti come Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino, e sopra a tutti Burri, ci mancherebbe; ma alla fine mi limito a raffigurare quello che mi è più congeniale, che capisco meglio, come gli speroni di roccia circondati da leccete secolari, che non a caso piacciono anche al mio mentore e grande amico Paolo Portoghesi. Lui mi ha sempre incitato. Devo molto ai suoi consigli, come a quelli di Italo Tomassoni.
Ho capito, Maestro, vuole portarmi a chiederle del suo quadro che donerà all’Abbazia di Sassovivo come ha già fatto per quello collocato nel battistero della concattedrale di San Benedetto a Lamezia Terme.
Io sono molto diretto. Non sono così abile da portare il discorso dove voglio. Intendevo solo ritornare alla domanda che mi hai rivolto prima, se mi pesi o meno questa Umbria. Mi pare fosse questo il succo, no? Non mi pesa dipingere speroni di roccia e pioppi invece di grattacieli e credo anche che qui la gente sia capace di apprezzare il bello.
Insomma com’è andata con l’Abbazia di Sassovivo? Dico con il quadro che ha realizzato per ricordare il suo grande amico Vinicio Taddei, che della tutela di quel luogo fece uno scopo di vita.
Credo che un artista alla fine della sua carriera debba lasciare un segno tangibile del suo passaggio. Io ho lasciato la mia impronta in diversi luoghi sacri, compresa la chiesa di Santa Maria Infraportas. Ora è la volta di due templi della cristianità, distanti tra loro ma vicini alla mia arte: un’abbazia benedettina dell’anno Mille, immersa nel silenzio, e una moderna cattedrale progettata da Portoghesi. Ciò dimostra che non esiste differenza tra arte antica e arte contemporanea, ma solo tra arte e false asserzioni artistiche.
A chi si riferisce?
Non ci casco. Vuoi farmi querelare? Nessuno nega il diritto al prossimo di vivere come gli pare, di disporre dei sentimenti come gli pare, ma mi infastidisce il fatto che l’arte divenga lo strumento di gente che non si cura dell’anima, di lestofanti che ingannano i gusti del prossimo, predicando una fede fasulla e influendo sulla morale e sul costume, tra l’indifferenza del mondo della cultura.
Maestro, a sentirla parlare così c’è il rischio che qualcuno le metta in testa l’aureola. Mi pare di percepire un certo vezzo evangelico in lei.
Probabilmente mi attende l’inferno (ride). Tra l’altro non sono particolarmente osservante. In me il praticante s’è perso per strada, ma non il mistico, acceso da un misticismo che mi viene dal ricordo della religione, uno che pensa fitto alla morte e alla rivelazione che potrebbe comportare.
Parla al condizionale?
Ogni religione è declinata al condizionale. Lo sai che ti dico? Ma scrivilo con parole tue. A questo punto credo che Dio esista davvero, perché al contrario non permetterebbe ad una creatura di affliggersi tanto nella ricerca della verità se questa non esistesse. Ho detto qualche fesseria? Non scrivere niente.
Lo sforzo di pensiero di un quasi praticante è comunque apprezzabile, perché aiuta a mantenere il cervello in forma. A proposito. Come fa a conservarsi così giovane?
Faccio solo quello che mi va. Ho abolito i convenevoli, non frequento persone noiose, quelle che ti tolgono la solitudine creativa senza restituirti compagnia. Ma mi raccomando, non farmi comparire come un santo. Non lo sono. Sono piuttosto un diavolo.
Non ne dubito, Maestro.
Ma un diavolo perbene, checché se ne dica. Capisci?
Non capisco Maestro.

 

FRANCESCA FELICETTI

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