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Prima gli Italiani? No: “Prima noi stessi”

Qualche giorno fa sono rientrata a Foligno dopo qualche mese di lavoro in Africa per conto di un’organizzazione non governativa. Andando al mare, ho incontrato un giornalista che mi ha chiesto notizia delle ong e del loro operato, convinto che mi sarei prodigata in un autoelogio. “Non servono a niente – gli ho risposto -. Non serve a niente aiutarli a casa loro”. Il giornalista è rimasto perplesso, indeciso se proseguire o meno col suo carosello di domande. “Davvero?” mi ha risposto.

Aiutarli a casa loro è un’idea seducente. È seducente pensare sia sufficiente distribuire vestiti e trattori per far stare bene a casa propria chi attraversa il mare, ma non è la soluzione. Intanto, non funziona perché non è quella la strada: non si tratta di distribuire beni o far spuntare ospedali ma di ascoltare le comunità e costruire con loro percorsi sostenibili. Non funziona perché l’innalzamento del benessere nei paesi poveri in realtà determina solo l’aumento delle risorse per emigrare (dati ISPI). Non funziona perché, nonostante sia il proclama più in voga in questo periodo, il governo italiano (sì, quello gialloverde) ha ben pensato di tagliare drasticamente i fondi da destinarsi ai paesi in via di sviluppo. Non funziona perché aiutarli a casa loro mette solo un tappo ma non risolve il problema: che l’Africa (con qualche eccezione) non è affatto povera ma non è padrona delle proprie tante risorse di cui noi – in nome dei nostri cellulari, gps, tv al plasma, pc, mp3, giochi elettronici, fotocamere, aerei e della nostra benzina – godiamo beati. Non funziona perché la nostra tecnologia urla sangue: quello di chi muore nelle miniere di coltan. Urla povertà: quella di chi lavora come uno schiavo, sfruttato dalle multinazionali. Non funziona perché li deprediamo a casa loro, tra pesca e disbocamento illegali, portando via al continente oltre 29 miliardi l’anno che non finiscono nelle tasche degli africani.

Che poi, tutti bravissimi a ricordarci di guerre e risorse insaguinate quando si tratta di non accogliere. “Aiutiamo i veri poveri”, “Ricordiamoci dello Yemen” – ho visto scrivere di fronte ai migranti che approdano sulle nostre coste. Peccato che l’Italia spenda quasi 5 miliardi in armamenti bellici (2017) finanziando paesi come l’Arabia Saudita e la Turchia, rispettivamente impegnate in Yemen e Siria con i soldi che noi depositiamo in banca. Sì, anche con i tuoi. Peccato che sì, le bombe sullo Yemen siano fatte a casa nostra, in Sardegna. Peccato che questi “veri poveri” di cui “dovremmo occuparci” secondo alcuni in luogo dei migranti li stiamo distruggendo proprio noi con le armi che fabbrichiamo.

“Ah no, ma i migranti hanno il fisico” mi dicono ancora. Peccato che chi lo afferma non sia mai stato in Africa in vita sua e non abbia proprio idea di come un africano dovrebbe stare. Peccato che le foto dei migranti palestrati si siano dimostrate più volte un falso, arrivate da festini londinesi imbastiti sul Tamigi. Peccato che ognuno di noi potrebbe benissimo autoimmunizzarsi da questi falsi, con app e motori di ricerca che rivelano la vera origine delle foto, invece di ritwittarle d’impulso, burattini delle proprie rabbie. Peccato che, dopo sette anni di questo lavoro, io abbia imparato come non si possa mai giudicare un povero dalle apparenze, dal suo vestito o dal suo stato di salute. Peccato che qualche anno fa accompagnai un donatore italiano in un villaggio africano per incontrare alcune famiglie vulnerabili. “Non sono abbastanza poveri” mi disse. Ma non aveva nemmeno ascoltato le loro storie e li aveva guardati con disappunto perché non rientravano nei suoi canoni di povertà. Come se i veri poveri fossero solo quelli che abitano nella spazzatura. Ma la povertà è anche altro. Mancanza di opportunità. Solitudine. Abbandono. E misurare i dolori degli altri sul termometro dei nostri schemi è quantomeno immorale.

“Ma ha uno smartphone.” Già. Peccato che in Africa si registri uno dei tassi più alti in termini di telefonia mobile. Ma chi non ci ha mai abitato non può certo saperlo. Peccato che in quasi tutta l’Africa esista il mobile banking per inviare denaro da cellulare a cellulare perché permettersi un conto in banca o semplicemente raggiungerla sarebbe impossibile. E allora il telefono ti serve più dell’acqua.

Spesso sento dire “prima questo” o “prima quello”. Io, invece, voglio dire un’altra cosa: “prima noi stessi”. Ripartiamo da noi stessi. Perché quando siamo davvero attenti a noi stessi non possiamo cadere nei tranelli elettorali di nessuno. Quando ho cura di me stesso so dare sempre un nome ai bisogni non soddisfatti che si celano dietro le mie rabbie. So sempre dire con quale parte di me (del mio presente, del mio passato) sto esprimendo un parere o se lo sto facendo libero dalle mie ferite. Quando ho cura di me stesso mi informo, cerco testimoni diretti. Quando ho cura di me stesso mi rendo conto che la Verità non può essere – come diceva Rumi – uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi e dove ognuno, raccolto un frammento, sostiene che il Vero è in quel suo unico pezzo. No. Quando mi prendo cura di me stesso, invece, mi rendo conto che sì, la Verità è uno specchio caduto e andato in frantumi, ma ho contezza del fatto che io non sono Dio. E che per ricostruire la Verità ho bisogno dei pezzetti degli altri. Così come gli altri hanno bisogno del mio.

FRANCESCA BRUFANI

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