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Don Spritz: “Ho incontrato Dio in carcere. Fuori c’era troppa confusione”

Intervista esclusiva a don Marco Pozza, intervenuto alla Veglia dei giovani per San Feliciano: “Mi piace tenere in una mano il Vangelo e nell’altra il giornale di cronaca”.

Don Spritz, così lo avevano ribattezzato i giovani della sua diocesi, Padova, quando, non trovandoli in parrocchia, li andava a incontrare nelle vie della movida patavina. Oggi, don Marco Pozza è cappellano al carcere di massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova. Alla Veglia dei giovani per il patrono Feliciano, lo scorso 23 gennaio, ha testimoniato quel profumo di libertà che nessun uomo, mai, deve smettere di gustare. Con la sua intervista per la Gazzetta di Foligno, ci racconta più da vicino il mondo dietro le sbarre.

Don Marco, lei è giornalista e sacerdote. Che valore ha aggiunto la vocazione al suo essere giornalista?

L’informazione ha nel suo etimo un qualcosa di estetico: in-forma, cioè ha il compito di tenere-in-forma, informando la gente. Il fatto di essere sacerdote mi obbliga a leggere la storia con gli occhi di Dio, cercando di smascherare il bene che è nascosto dentro la cronaca quotidiana. C’è il filo rosso della presenza di Dio in ogni fatto che accade: mi piace renderlo sempre manifesto, tenendo nella mano destra il Vangelo e nell’altra il giornale della cronaca.

Perché ha scelto di essere sacerdote in un carcere?

Per due motivi. Prima di tutto perché, nella vita, ho sempre avuto a che fare con il successo: sono un ragazzo fortunatissimo. Avvertivo forte il bisogno di confrontarmi con l’insuccesso: la vittoria, certe volte, ti rende arrogante mentre la sconfitta, se l’accetti, ti induce alla meditazione. Poi, volevo cercare di sfidare me stesso nel mio punto debole: il facile giudizio nei confronti di chi abita le galere. Giudicavo senza conoscere: mi ero stancato di questa forma di infantilità intellettuale e bugiarda.

Che ruolo ha tra i detenuti?

Il mio ruolo è la presenza. Esserci, mentre le cose accadono, mentre si ripensa all’accaduto, nell’attimo in cui si prova a immaginare un futuro diverso dal passato. Paragono il mio ruolo di sacerdote a quello di un postino: ho lettere da consegnare. Non le ho scritte io. A me viene chiesto di mettere in contatto mittente e destinatario perché abbiano modo di parlarsi, di scriversi. Il mittente è Dio, il destinatario è la persona detenuta. Certe volte capita che il destinatario sia proprio il postino: consegnando lettere, è come se rileggesse la sua storia. Mi capita tante volte: sono le volte in cui Dio mi mette a terra.

In galera c’è la fede?

La mia risposta è la sua domanda ribaltata: ma nel mondo fuori c’è fede? Il sospetto, che qui dentro diventa giorno dopo giorno evidenza manifesta, è che sia più facile incontrare Dio nella sconfitta piuttosto che nella vittoria. Il male è di una arroganza grassa: vorrebbe farti credere che è tutto male. Il bene ha stile: è capace di discrezione per sopravvivere, allenandosi, sotto il male più nero. Dio, se l’ho incontrato, l’ho incontrato qui dentro: fuori c’era troppa confusione.

A volte, si designano le persone in carcere solo con i reati di cui si sono macchiati: assassini, pedofili, criminali. Che “uomini” ha conosciuto, invece, con il suo servizio?

Sto conoscendo la stessa identica umanità che conosce lei che adesso me lo sta chiedendo. La contemplo, però, da un’angolatura tutta particolare: senza la libertà. E questo è un dettaglio che cambia il risultato finale di una conoscenza. Tra i corridoi e le celle non incontro reati che camminano, incontro uomini che la giustizia ha condannato per dei reati commessi: nessun reato, nemmeno quello più grave e insopportabile, sarà mai più grande di chi l’ha commesso. L’umanità che Dio mi sta facendo incontrare è un’umanità ferita, dilaniata, colpevole, in stato di arresto. Quell’umanità è lo specchio fedele di don Marco: anch’io sono dilaniato, ferito, in stato d’arresto da parte di Dio. Ci conosciamo a vicenda, contaminandoci con le nostre biografie.

Il carcere rieduca davvero la persona?

Certo che è così: l’hanno stampato a caratteri cubitali anche nell’articolo 27 della Costituzione Italiana. Questo, però, non significa che nella realtà accada esattamente com’è scritto. In carcere, non dimentichiamolo, c’è anche chi non vuole cambiare affatto. Per chi vuole, invece, la rieducazione è qui, a portata di tutti. O, almeno, dovrebbe rimanere tale nelle intenzioni.

Come si coniuga l’esercizio della giustizia e il ridare fiducia a una persona?

Il male non va mai giustificato: sradicarlo, dal cuore dell’uomo, è la sfida di Dio contro Lucifero. C’è una giustizia alla quale l’uomo deve rispondere, che gli chiede di espiare una pena per le gesta compiute. Una vera giustizia, però, è possibile solo attraverso la misericordia che non inchioda per sempre l’uomo in croce: si offre come guida nell’aiutarlo a rialzarsi, insegnandogli a cogliere quel bene che, nonostante il male, non si spegne mai completamente nel cuore.

Alcuni detenuti si pentono. Arrivano mai a perdonarsi?

Prima d’incontrare questa città di ferro-cemento, pensavo esistessero due gradazioni del perdono: quello da parte di Dio e quello da parte delle vittime. La cosa che mi ha sorpreso, qui dentro, è l’aver appreso una terza gradazione, che è il perdono da se stessi. C’è gente che è stata perdonata da Dio, che ha avuto il perdono delle vittime ma che non è ancora riuscita a perdonare se stessa. È il sogno di chi educa in carcere: creare le condizioni migliori grazie alle quali una persona faccia l’incontro più bello, che è quello con se stesso. Faccia a faccia.

Ci ha raccontato la storia di Jacopo: chiedeva a Fra’ Cristoforo di pregare con lui perché la famiglia del ragazzo che ha ucciso arrivi a perdonarlo. Come si convive con la consapevolezza di aver provocato tanto dolore e di un perdono che potrebbe non arrivare mai?

È una convivenza assai difficile, ai margini dell’impossibile: per chi prende consapevolezza del male compiuto, le notti non passano mai. Per chi, poi, oltre al male compiuto ha consapevolezza della brutalità con cui ha commesso quel gesto, il carcere diventa un inferno: certe sere verrebbe voglia di divorziare da se stessi. Calcolare la possibilità che il perdono possa anche non arrivare mai è la moneta con cui si paga il fatto che un gesto compiuto non potrà essere cancellato. Quando il perdono invece arriva – certe volte arriva! – è l’ennesimo sgambetto che il buon Dio riserva a coloro che pensavano di essere dannati per l’eternità.

Lei coordina un progetto a sostegno proprio delle famiglie dei detenuti: può raccontarci un po’ l’iniziativa?

In carcere si vive una doppia carcerazione: la mancanza della libertà e la non possibilità di coltivare gli affetti. Come parrocchia cerchiamo di tenere viva la grammatica dell’affetto: ciascuno cresce solo se qualcuno lo sogna, portando nel cuore il suo ricordo. Ci sono persone detenute che non vedono i familiari da anni, i figli da mesi, i genitori da una vita intera: nel nostro piccolo contribuiamo per offrire loro dei biglietti aerei, dei viaggi in treno per un colloquio, dei piccoli gesti di carità che li aiutino a tenere accesi i legami del cuore. È una carcerazione, quella degli affetti, dalla quale possiamo aiutarli ad evadere senza mancare di rispetto alla giustizia. Sapersi parte di una famiglia, seppur distanti geograficamente, è una sorta di scialuppa di salvataggio: a riva, quando la toccherai, c’è qualcuno che ti sta aspettando per portarti a casa sua. Senza affetti si muore di disperazione.

ANNAMARIA BARTOLINI

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