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“Il giornalismo? Come la maglietta di lana, deve piccare”

Intervista al professor Guglielmo Tini. Il pivot della squadra della Gazzetta.

Aspetto dinoccolato, fisico che dà sul segaligno, piuttosto alto, il professor Guglielmo Tini è l’incontrastato ‘pivot’ della immaginaria squadra di basket della Gazzetta. I suoi tiri vanno sempre a canestro. Sia che siano dettati all’Urgenza dell’anima che dal traghettatore Caronte.

E credeteci, sono sempre da tre punti.

Dicono le cronache segrete del Federico Frezzi (sta per liceo classico) che le sue performanti lezioni si trasformino in spettacolo. Che fa roteare gli occhi delle studentesse fino a raggiungere l’estasi. Ma sarà poi così? Da cronista curioso, quale sono, avendolo avuto fianco a fianco per ben cinque anni, ho notato una cosa che va al di là della sua preparazione e della sua immensa cultura. La lealtà.

E allora buttiamoci in un’intervista a cuore aperto che abbiamo fatto mantenendo le distanze. Causa virus (spiegazione per chi non afferrasse il concetto).

Professor Tini, come si vede nei panni di cronista?

Come quando da bambini la mamma ci metteva la maglietta di lana. Piccava. Il cronista non lo so fare. Un cronista deve stare sui fatti e io sto sempre altrove. Ci vuole un taglio mercantile: ha notato che i più grandi cronisti erano mercanti? Compagni è stato un politico, uno scrittore e, prima di tutto, un mercante; Villani uno storico, un intellettuale e, prima di tutto, un mercante. Qualcosa significherà. Scrivono cronache occorrenti ai tempi loro, perché il mercante c’è per definizione. Sta lì. Fiuta. Io sto altrove e ho la rinite. Oppure ci vorrebbe uno sconvolgimento: il sistema va per aria, uno si ritira a vita privata e scrive le croniche. Però sempre il mercante devi aver fatto, sempre un gruzzolo ci devi avere, se no dove ti ritiri, al Sant’Erasmo?

Come mai questa militanza alla Gazzetta?

Lunga militanza. Mi presero per stanchezza, un giorno afoso di agosto. Con tutte le truppe in ferie, le legioni in vacanza, i confini sicuri. Stavo gustando un tiramisù. Probabilmente gli serviva un povero diavolo. Poi però i diavoli, anche poveri, te li metti in casa e ci restano un par di lustri, come i sottosegretari. Non c’è esorcismo che tenga; infatti vo via di testa mia. Mi presentarono ad un giovane direttore, allora tricologicamente resistente; adesso è giovane ancora, ma decisamente meno sansonesco. Segno che la militanza sfoltisce. Solo i satiri restano lanuti. Forestici. Lanosi i caronti. Mi rimase sullo stomaco, il tiramisù.

In questo bailamme dove ognuno tira per il suo carro, la cultura a che punto è?

Sotto le ruote del carro. Questo è un tempo di cultori, più che di cultura. La cultura è un respiro vasto, en plein air, richiede savoir faire, tempo, rispetto e pazienza. Il cultore è uno specializzato; guarda la tavoletta ma si perde la volta. Il problema, direbbe Dante, è la fredda crosta: alla fine ci si abitua e si raggela. Peggio i culturisti però. Un tempo c’erano i salotti, ora ci sono i divani delle barbare ursine che t’insegnano a lavarti le mani; col tempo che fa i culturisti sfilano, uno dietro l’altro, porta a porta. Siccome non mi garbano, mi trastullo coi beati angelici, Piero e Alberto.

Siamo nell’anno di Dante, anzi di Durante Alighiero o Alighieri. Il professor don Ferdinando Merli, suo predecessore al Liceo che poi venne ucciso in circostanze misteriose, diceva ai suoi ragazzi, nel suo eloquio folignate che Dante è come lu porcu, non se butta via gnente. Condivide?

Di Dante non solo non si butta via niente, ma ogni parte che ne mangi diventa, per dirla con lui, vital nodrimento. Un convivio vero e proprio dove ben s’impingua se non si vaneggia, ci si rimette in forma, si rifà la forza. Il problema è proprio questo: che il mondo va a pastura, sempre per dirla con lui. Siamo un mondo di vegetariani. Che non se la prenderanno, perché sanno che in Dante c’è un senso allegorico. Quanto a me sono onnivoro in senso letterale o anagogico o quello che le pare. E poi la Commedia inizia anche sotto il segno della lonza; qualche cosa vorrà dire.

Cosa secondo lei direbbero oggi Leopardo e Carduccio, come affermava il grande Gigi Proietti, guardando la realtà di questi giorni?

Carducci poco da dire. Fa eco: predica alti e schietti i cipressi a Bolgheri, ma repubblica nisba. È un democratico che si adegua. Sbraiterebbe dando del pirla al segretario dem che si è alleato con maionese, ma poi salirebbe a palazzo Chigi, se lo chiamassero a far di conte. Leopardi l’ho sentito proprio poco fa. Non sa se il riso o la pietà prevale. Lo sa qual è il tema leopardiano per eccellenza? Uno può dire: il pessimismo. Altra invenzione di quel grullo del Carducci. È l’assuefazione. Purtroppo l’uomo si assuefa a tutto: al freddo come al caldo, ma anche a considerarsi un coglione se c’è chi glielo ripete ogni giorno. La parolaccia non è la mia; è di Giacomo. La sdoganò lui.

Adesso parliamo di sess…

Lo sa, non me ne intendo. Dovrei frequentare corsi di recupero…

Ma prof, se non mi lascia finire…, mi riferivo a Sessa Aurunca, la patria di Gaio Lucilio il padre della Saturae…

Un polemicone, Lucilio! Ma su un punto ci ha azzeccato in pieno: un verso fatto bene arriva a risultati maggiori di qualsiasi arma. Tocca ridere. Secondo me l’antico adagio è stato interpretato male: non in vino veritas, ma in riso veritas. Se non sai ridere, sei schiavo. Di che? Dell’ignoranza. Leopardi diceva: chi sa ridere è padrone del mondo. Senza satira il mondo sarebbe una camera mortuaria. Il mondo, mi dirà lei, è già una camera mortuaria: ma senza satira sarebbe solo una camera mortuaria. Del resto guardi le facce di chi non accetta satire: funeree, tristi, maligne. Sa che un giovane vignettista mi ha disegnato gobbo e coi piedi alle dieci e dieci? E che me la dovevo prendere? Adesso quando cammino sembro aver ingoiato un manico di scopa. Dritto che manco Carla Bruni pre-eliseo. La satira mica ride di me: ride con me. Non è mai una presa-per-il. Vuole un esempio di presa-per-il? Il cosiddetto cashback. L’antisatira di Stato.

Prof, torniamo sui banchi, come va la dad?

Bene. Tutti gli danno addosso. Ma le chiedo: se il pandemico avesse scarrozzato, non dico tanto, ma appena una ventina di anni fa, come avremmo fatto scuola? Con l’alfabeto Morse? Coi segnali di fumo? Rifuggo sempre dalla cilecca di parlare di ciò che dovrebbe essere; preferisco la verità effettuale. E la dad non mi sembra la fine del mondo. Le infezioni vere sono altre. Il problema vero della scuola è la politica. Nel senso che una vera politica della scuola non c’è. I democristiani lo sapevano bene e, per non fare più danni, il mistero della pubblica istruzione se lo tenevano sempre per sé.

Quale bagaglio di esperienza le ha dato, in questi anni, l’approccio con il giornalismo?

Bagagli non ne fo da tempo; da quando me li smarrirono al tapis roulant dell’aeroporto. Tanto più che non sono un giornalista. È stata la scrittura, sovrana ineguagliabile e tremenda del mio cuore, a prestarmi al giornalismo. Ora attendo misure di ristoro, ma con l’aria che tira, campa cavallo. Il patrimonio vero sono gli amici redattori; giapponesi ai quali nessuno ha detto che la guerra è finita. Loro sì. E tra questi anche lei, caro Satiro, senza mai un filo di prosopopea, nonostante il curriculum.

Un’ultima cosa, parafrasando Dante, riusciremo a riveder le stelle o dobbiamo affidarci per sempre a Caronte?

Troppi colori nell’aria; un inquinamento cromatico imbarazzante. Rosso, giallo, arancione, indaco, ultravioletto: impossibile rivedere le stelle, a meno che non siano metaforiche pure quelle, conseguenze dolorose delle buggerature palaziali. E poi, per uscirne e vederne cinque, di stelle, meglio Caronte, no? Meglio togliersi dalla quadrupedia.

Grazie professore, presto ci vedremo al Cenacolo, ma prima salutiamo i lettori e poi andiamo a farci un wiskaccio, come disse una volta il grande Nando Martellini. Forse i più giovani diranno ma chi era costui?

ROBERTO DI MEO

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