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Come un sasso

In Afghanistan esiste la parola più bella del mondo e si usa per indicare il sasso che viene buttato nell’oceano e si dà per perso nei fondali ma che le correnti, poi, riescono a riportare a riva.

Sami viene da Kabul; è rifugiato in Europa da qualche anno e la parola più bella del mondo è uno dei suoi primi sussurri dopo le vicende di queste settimane. Dopo che lo zio, qualche giorno fa, è stato prelevato dall’abitazione dai talebani e buttato per tre giorni in prigione senza cibo né acqua. Picchiato, pestato a sangue. Non è un dissidente, non è un attivista, non ha mai lavorato con il “libertino West”. È un uomo comune: ha una moglie e quattro bambini, il più grande ha sette anni. Non ha commesso reati, eppure viene pestato fino a che, al tramonto del terzo giorno, una persona di guardia lo fa fuggire. Perde molto sangue, l’ospedale è lontano ma riesce a raggiungere casa. È notte. A Kabul vige il coprifuoco ma non è una multa che si rischia: chi lo infrange – anche per andare in ospedale – rischia la vita. A Kabul, oggi, Gesù muore così.

Da quando lo zio è morto il popolo afgano per Sami sembra quel sasso che affonda. Buttato nell’oceano, abbandonato a se stesso, perso tra i fondali mentre il mondo è stato a guardare questo popolo-sasso gettato via in nome del dio denaro.

Difatti, i talebani siedono oggi su alcune delle miniere più appetibili del globo, cruciali per le economie più importanti per arrivare alla tanto agognata virata “green” dell’energia...

di FRANCESCA BRUFANI

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