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La scuola luogo di rinascita per i detenuti

Storie di riscatto. La scuola dietro le sbarre vista da un’insegnante

Cosa c’è dietro le alte mura in cemento di un carcere? Ci sono uomini e donne che hanno sbagliato sì, ma ci sono anche tante storie, sicuramente di sofferenza, in alcuni casi di presa di coscienza di quello che in fondo si è o non si è stati, di quello che un giorno, forse, si potrà essere, di quello che non si sarà mai. Soprattutto nella sezione di alta sicurezza, lì dove le pene da scontare si quantificano in anni su anni. Ma ci sono anche storie di riscatto, che spesso passano anche per le opportunità che un carcere dà, come quella di studiare. Nell’istituto penitenziario di Maiano, a Spoleto, sono due gli indirizzi scolastici che i detenuti possono scegliere di frequentare: l’alberghiero e l’artistico. E proprio tra i docenti di questo secondo indirizzo c’è la folignate Simona Sclippa, insegnante di filosofia alla quale abbiamo chiesto di raccontarci cosa c’è all’interno di quelle che spesso appaiono come “cattedrali nel deserto”, vicine alle nostre città, ma allo stesso tempo lontane, per- ché in fondo, per noi, sono sconosciute. 

Simona, quando sei entrata per la prima volta in un carcere?
“La prima volta è stata nell’anno scolastico 2016/2017. Avevo scelto come sede il liceo artistico di Spoleto, sezione carceraria. Una scelta dettata anche dal fatto che già mia madre aveva insegnato in carcere e avevo il ricordo di questa sua esperienza. Poi, per me, tutto quello che è ai margini rappresenta un osservatorio privilegiato. Lì non c’è una luce che abbaglia e riuscire a scovarla ti permette di arrivare alla vita vera”

Com’è stato il primo giorno?
“La sera prima ero un po’ preoccupata: mi chiedevo come sarebbe stato insegnare in un carcere maschile di alta sicurezza, dove si trovano uomini che hanno compiuto reati mostruosi, cose lontanissime dalla mia quotidianità, per i quali devono scontare pene lunghissime: c’è anche chi non uscirà mai. Un mondo che non mi apparteneva, ma che mi aveva sempre attratto, perché volevo capire cosa c’era in quell’abisso. L’ingresso in carcere è forte e disorientante: da persone libere non siamo pronte ai tanti controlli, ai metal detector. Sono entrata con in mano solo un libro di filosofia, un po’ agitata e spaventata. Le aule sono delle normalissime stanze con i banchi e una lavagna. Dentro ci sei solo tu e gli studenti: è uno spazio della scuola che ha come obiettivo il dialogo”

Com’è stato l’approccio?
“Quando sono entrata in classe quel primo giorno uno studente dagli occhi di ghiaccio mi ha guardata dritta in faccia e mi ha detto: ‘Non ha paura di stare qui?’. La mia risposta è stata: ‘Io ho scelto di essere qui’. Da quel momento ha preso il via un percorso straordinario: sono entrata piena di timori e sono uscita emozionata. A fine anno ho regalato a ciascuno un libro con dedica e uno di loro mi ha chiesto, stupito, perché gli avessi fatto quel regalo. Quello appena concluso è stato, per me, il terzo anno di insegnamento in carcere, ma nel tempo ci sono stata anche con il progetto di lettura ‘Fulgineamente’: un’occasione importante per costruire un dialogo, leggere testi, confrontarsi e incontrare gli autori” 

Come funziona il sistema scolastico in carcere?
“È una scelta del detenuto, anche se per me dovrebbe essere obbligatorio, perché molti non hanno la maturità per decidere: per il 90% di loro è un mondo sconosciuto anche perché nella loro vita non hanno mai potuto scegliere, hanno sempre obbedito. Fuori dal carcere andare a scuola era impensabile, perché non gli dava un profitto immediato. Molti di loro non si sono mai neanche chiesti perché rubavano o uccidevano: rispondono che è quello che hanno sempre visto fare. Una sorta di condanna che passa dal grembo materno a loro: tanti hanno madri che sono o sono state in carcere. Com’è possibile uscire da quella famiglia?… (Continua…)

Di MARIA TRIPEPI

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