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Amicizia gioiosa e meticolosa bellezza scenografica

Controscena celata: stavo ancora respirando il vento del sud, fatto di spruzzi di onde e danzatrici della taranta, profumi di cappereti e pietre sulle quali raro trascorre la sera il geco solitario, quando la meravigliosa cantante lasciava le ultime note volare, come farfalle di Peppe Barra. Dalla cavea il maestro delle percussioni la guarda, lei sa che quegli occhi scuri l’aspettano: il maestro delle percussioni sorride ed alza il pollice, mentre il teatro è già, di suo, Corte dei miracoli, gitani scanzonati e struggenti. È questo il miracolo di ProTeMus: l’amicizia. Non si può trascinare il pubblico per le vie e le piazze di Parigi, senza smarrirsi, se non si è più che amici, se non si è condiviso il cammino travolgente e faticoso, entusiasmante e coinvolgente della preparazione, dello studio, della passione. Non ci si può avvicinare a Notre Dame se, ad un certo punto, non si diventa un tutt’uno armonico fatto di colori e note, voci e poesia; non potrebbero parlare le pietre se non vi fosse chi è in grado di dare alla pietra sangue, respiro e vita (che impressione quei sospiri di proskynesis lapidaria, come soffio di secoli, sulla linea del palcoscenico!). Al di là della meticolosa bellezza scenografica, frutto ancora una volta dell’attenzione minuta e precisa di quel concentrato di genialità e rigore architettonico che è il regista Giacomo Nappini, ciò che lo spettatore porta via dal Notre Dame è il senso di un’amicizia gioiosa, un gruppo di ragazzi spumeggianti, ricolmi di energia cinetica e linearità corale, di solarità abbagliante nel chiaroscuro del testo di Hugo, di armonia nella danza più classica come nella frenesia delle note zigane, nei dialoghi avvolgenti, suadenti e impazziti d’amore e passione. Non se ne vanno dal pensiero del vostro cronista, neppure a tarda notte (ma a proposito: sto percorrendo i vicoli di Foligno, oppure sono altrove? Non è forse Boulevard St. Germain questo, non è Ile St. Louis? Non sto a due passi da Rue de Rivoli?), non se ne vanno, dicevo, Esmeralda disperata e innamorata, in anticipo sulle passioni, le sue mani che intrudono le sbarre nell’abbraccio alla madre, Quasimodo lo splendido, bellissimo Quasimodo fatto di arsura e d’amore, parole sussurrate dai reietti di tutti i tempi e tutte le patrie, resi muti dalla sordità del pregiudizio, e Mons. Frollo, il gigantesco, pontificale, ieratico Frollo, le sue parole come scudisciate in procinto di lasciare un livido, il volto terreo, alta la figura, austera, minacciosa come una passione indicibile, nell’intreccio delle mani (a proposito: che sensazione di gelo mi lasciano addosso, come un tocco mortale, una citazione dal pennello di Hans Baldung Grien, un trionfo di morte). Personaggi magnificamente impersonati, stupendamente vivi perché anche il carattere appena accennato ha compimento nel carattere che gli sta accanto, e chi gli sta accanto ha compimento nell’altro che lo segue e così via, perché ProTeMus non sia mai un personaggio in cerca d’autore, ma una meravigliosa espressione di compiutezza, di colore eloquente e di pensiero poetante. (Una figura alta, in un accenno ironico, attraversa la piazza e il suo pastrano ha una voce strana: ride. Dev’essere Pierre Gringoire scampato alla forca. Nutre pensieri di calda alcova. Qualcuno gli dirà la verità). Un grande spettacolo, l’ennesima prova di una realtà che va sostenuta ed incoraggiata, ma anzitutto amata, perché ProTeMus è un patrimonio di imprescindibile ricchezza non solo per la Diocesi o la città, ma per chiunque creda nel valore fondante della cultura e dell’alta, altissima formazione della persona. Controscena celata: a qualche ora dal debutto, mentre sfinita e felice Silvia Nappini cerca l’accredito per il vostro cronista, arriva al San Carlo la signora Maria Luisa. Le braccia ingombrate dai vassoi per gli attori, i ragazzi che sono anche i suoi ragazzi. È emozionata, felice, si toglie gli occhiali per nettarne le lenti. È da tempo nella famiglia di ProTeMus ma ancora gli occhi le si velano, la scienza dell’amore la tocca, la fa nuova sempre. Il vostro cronista si fa piccolo piccolo, si fa da parte; la luce di questa famiglia lo abbaglia. A fine spettacolo anche Maria Vera, la prof, ha il volto illuminato, ridono gli occhi che si infuturano, come una tròika di Gogol’ che fila sicura su una steppa di luce; la commozione non si può del tutto frenare. Il vostro cronista, al margine di questo miracolo, si allontana nella notte. Non potrà scrivere alcun pezzo sul Notre Dame di stasera; tutto troppo grande e importante per non tralasciare qualcosa di grande e importante. Non scriverò nessun articolo. (Taglio per un vicolo. Una figura mi affianca, gigantesca. Non so perché ma mi dà subito l’idea di uno scrittore felice. È molto tardi e la notte è sovrana. Ci facciamo un po’ compagnia e l’aria ha il suono di pagine che si sfogliano).

GUGLIELMO TINI

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