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Un’infermiera missionaria a Kabul per aiutare i bambini malati di labipalatoschisi

Catia Rondelli, infermiera di sala all’Ospedale di Foligno, ha vissuto un’esperienza indimenticabile in Afghanistan, partecipando ad una missione umanitaria organizzata dall’Associazione Emergenza Sorrisi, ONG gestita dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. L’associazione, composta da 369 medici ed infermieri volontari, ha lo scopo di operare bambini con malformazioni del volto, ustioni, traumi di guerra ed altre patologie invalidanti nei Paesi del Terzo Mondo. Ad aprile, il Presidente dell’Associazione, Fabio Massimo Abenavoli, ha organizzato una missione umanitaria a Kabul, con lo scopo di operare bambini affetti da labiopalatoschisi, una malformazione della faccia comunemente nota come “labbro leporino”. A questa missione, della durata di una settimana (dal 29 aprile al 6 maggio), ha partecipato anche Catia Rondelli ed è per questo che noi giornalisti della Gazzetta siamo andati ad intervistarla:

Nonostante fossi consapevole dei pericoli a cui andavi incontro, cosa ti ha spinto a partecipare alla missione?

Di fronte alla proposta di partire per l’Afghanistan, sicuramente all’inizio la titubanza la faceva da padrona. Tanti i dubbi, tanti i timori e tante le paure. A rafforzare la mia indecisione sono state due email, che avevo ricevuto rispettivamente il 5 e il 6 aprile. Nella prima, si evidenziava che il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, da tempo sconsigliava viaggi ad ogni titolo in Afghanistan in considerazione del perdurare della gravità della situazioneok - Catia Rondelli1 di sicurezza interna nel Paese, dell’elevato rischio di sequestri ed attentati a danno di stranieri in tutto il territorio nazionale. Nella seconda, invece, inviata da Fabio Massimo Abenavoli a tutti i colleghi, così leggevo: «La missione è nata in base ad una richiesta espressa dall’ambasciata Afghana in Italia di riprendere le nostre azioni umanitarie interrotte alcuni anni fa a Kabul perché le condizioni del momento non lo consentivano. Come d’abitudine abbiamo informato il Ministero degli Esteri italiano che ci ha risposto richiamando ciò che appare sul sito della Farnesina e che sconsiglia viaggi in Afghanistan così come in vari altri Paesi. Al di là di esempi banali recenti (Francia e Belgio) che non consentono più di dirci sicuri in alcuna località, siamo tutti consapevoli che la nostra missione rappresenta un impegno importante e dunque siete liberi di non partecipare se non pienamente convinti». Dopo aver letto queste due email, la mia insicurezza è sicuramente aumentata. Alla fine però, la voglia di fare questa esperienza ha preso il sopravvento e così ho deciso di partire”.

Come è stata la partenza e poi l’arrivo?

Preso l’aereo a Fiumicino, siamo atterrati a Mazar-i-Sharif. All’aeroporto eravamo soli: nessun altro volo in arrivo o in partenza. Scortati da soldati armati di kalashnikov, siamo arrivati nella reggia dell’Emiro del Qatar, che ci ha ospitato nella sua residenza. Non potevamo uscire senza scorta: il rischio di essere rapiti era troppo alto. Dunque un arrivo un po’ traumatico. Appena abbiamo sistemato i bagagli, siamo subito corsi all’Ospedale dell’Università del Mazar-i-Sharif e abbiamo iniziato ad operare i bambini”.

Quali malformazioni avete curato?

Abbiamo principalmente operato bambini con labiopalatoschisi. Questa malattia è particolarmente diffusa nei Paesi del Terzo Mondo o in Paesi dove non viene osservata una dieta variegata. Una delle cause principali è infatti un deficit di nutrienti da parte delle gestanti. Sono moltissimi i bambini giunti nel centro universitario per curarsi, ma per mancanza di tempo siamo riusciti ad operarne soltanto una sessantina. Abbiamo cercato di operare soprattutto le bambine, in quanto in un paese islamico non moderato una donna con labiopalatoschisi non ha futuro: non può nemmeno sposarsi”.

Cosa ti ha colpito maggiormente di questa esperienza?

Sono rimasta molto sorpresa della cordialità e della gratitudine mostrata verso di noi. Nonostante la diversa cultura, siamo riusciti a collaborare con i medici dell’Ospedale afghano nel migliore dei modi. Lo stare a contatto con la gente, conoscere una nuova cultura e avere la possibilità di aiutare tanti bambini che, se non operati sarebbero stati segnati per la vita, sono stati gli aspetti più significativi di questa mia esperienza”.

CELESTE BONUCCI

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