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La “bona nova” de Matteo “s’arconta” in spellano

Una nuova e preziosa iniziativa editoriale di don Venanzo Peppoloni trasforma la traduzione dialettale del Vangelo in un audiolibro, definito dal Cardinal Ravasi “un esperimento di straordinaria limpidità, freschezza e fragranza”

Una bona nova annunciata nella lingua del cuore, narrata nelle case attraverso la familiare cadenza della voce dei padri: don Venanzo Peppoloni, autore nel 2005 de “La bòna nova secónno Matteo” (nella foto), traduzione in dialetto spellano del Vangelo secondo Matteo, ha creduto bene che il vernacolo non si dovesse soltanto leggerlo, ma anche ascoltarlo. Così, nel 2022 è nato un audiolibro in cui la musicalità della voce narrante restituisce alle parole evangeliche il sapore della tradizione e un’identità preziosa.

Un Vangelo scelto – come spiega don Venanzo – per la narrazione di una quotidianità che ancora oggi è l’archetipo di tutto il vissuto umano. Ecco, dunque, il voler raccontare quello “straordinario quotidiano” attraverso il conosciuto, il familiare. Regalandolo ai posteri “con la speranza – scrive don Venanzo nella prefazione – di aver consegnato un’eredità agli anziani che si riconoscono come protagonisti testimoni di un linguaggio per loro ancora di comune dominio e ai giovani lo stimolo di aggiornarlo con il rispetto di chi ha cura di un fiore vivo”.
L’opera è impreziosita dalle prefazioni del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio sulla Cultura e del cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze.

Nello spiegare di aver accolto “con una certa curiosità” il desiderio di don Venanzo Peppoloni di leggere il suo esperimento linguistico, Ravasi lo definisce “di straordinaria limpidità, freschezza e fragranza”. Un’esperienza, quella della traduzione vernacolare del Vangelo, legittimata dal fatto che in particolare Matteo, il più “popolare” dei quattro, “appartiene col suo linguaggio, i suoi simboli, i suoi eventi e il suo messaggio innanzitutto all’orizzonte della gente semplice spontanea che usa il dialetto”. “La sua – spiega l’esperto biblista Ravasi – è una traduzione che si accosta decisamente a un genere antico che anche al tempo di Gesù prosperava, quello del Targum. Questa parola aramaica, che significa semplicemente ‘traduzione’, designava le versioni della Bibbia eseguite quando gli ebrei stessi non parlavano più l’ebraico ma l’aramaico (spesso in varianti dialettali). Così, dal 250 a. C. circa fino al 300 d. C. si approntarono queste versioni dall’ebraico biblico in aramaico…
di FEDERICA MENGHINELLA

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