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Codice rosso. La violenza sulle donne

Dal mese di agosto 2019 il “Codice Rosso” è legge; sono stati modificati articoli del Codice Penale, e di Procedura Penale; sono state introdotte ulteriori disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

Vengono inseriti ben quattro nuovi reati: il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, senza il consenso delle persone rappresentate (cd revenge porn), con l’aggravante se i fatti sono commessi nell’ambito di una relazione affettiva, anche cessata. Si introduce il reato di deformazione dell’aspetto della persona, mediante lesioni permanenti al viso; il reato di costrizione o induzione al matrimonio, con l’aggravante quando il reato è commesso a danno di minori. Infine si sanziona la violazione di provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare.

Nelle scorse settimane la nuova normativa è stata approfondita in un convegno dal titolo “separicidio” un termine coniato per indicare quei fenomeni di violenza che trovano la causa, la ragione nella vita matrimoniale, in famiglia. Una parola composta che fa subito pensare alla separazione coniugale.

L’humus, il contesto da cui si parte è il cd “divorzio all’italiana”, la violenza sommersa nelle mura domestiche, troppo spesso non denunciata. La violenza contro la donna è violenza contro i diritti umani senza che sia stato realizzato un contesto concretamente punitivo nei confronti di taluni comportamenti violenti; alcuni atti sono stati sottostimati ed è mancata una efficacia dissuasiva.

La Corte di Strasburgo, nel 2017, ha condannato l’Italia per violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani, in quanto le autorità italiane non sono intervenute per proteggere una donna e i suoi figli, vittime di violenza domestica perpetrata da parte del marito, avallando, di fatto, tali condotte: in particolare, viene contestato allo Stato italiano la mancata adozione di misure urgenti.

Una vicenda aberrante: nel 2012 una donna, dopo l’ennesima violenza subita dal marito, presenta denuncia per maltrattamenti, lesioni e minacce, chiedendo protezione per lei e i figli. Nulla vien fatto, nessuna indagine. Solo sette mesi dopo la denunciante viene sentita dalla polizia e rettifica le sue iniziali dichiarazioni, “ammorbidendo” le accuse nei confronti del marito. Sulla scorta della nuova versione, il pubblico ministero archivia il reato di maltrattamenti, e dispone il rinvio dell’uomo davanti al Giudice di Pace per il più lieve reato di lesioni. Il marito, ricevuto l’atto di citazione a giudizio, uccide un figlio e tenta di uccidere la donna. Nel 2015, l’uomo è stato condannato all’ergastolo per omicidio, tentato omicidio, maltrattamenti in famiglia e porto abusivo di armi.

Perché, nonostante sia stata avvertita della pericolosità del marito, l’Autorità giudiziaria non ha adottato misure idonee a tutelare madre e figli? La mancanza di una concreta, immediata protezione ha creato un contesto di impunità, una convinzione di “abbandono”, come se contro certi comportamenti violenti non ci “fossero rimedi”.

Il Codice Rosso potenzia la difesa e la prevenzione, estendendo la normativa antimafia a questo tipo di reati e disponendo una immediata attivazione: entro tre giorni dalla denuncia, la polizia deve riferire al Magistrato che deve procedere all’esame della persona offesa.

La violenza contro le donne, però, non è solo pugni, calci e minacce (“sei matta, ti tolgo i figli”), può essere più sottile da definire, più subdola da stanare, eppure sempre più diffusa: è la violenza economica, una forma di sopruso che sfrutta il denaro come strumento di potere. “Taci che ti mantengo”. La posta in gioco non sono i soldi, ma la dignità di chi subisce la violenza, che teme – soprattutto in presenza di minori – persino di chiedere la separazione, perché talvolta non è in grado di far fronte alle quotidiane esigenze. La donna, la madre, la moglie, la casalinga non viene certo tutelata cambiando una desinenza, sostituendo una O con una A. Va affrontato e risolto il problema della differenza reddituale, a parità di mansioni; va garantita la “sopravvivenza” a chi si dedica alla famiglia, alla crescita dei figli, alla cura della casa.

Invece nulla. Solo becera demagogia. Si fanno le battaglie per la parità di genere, soltanto declinando al femminile le professioni, le cariche pubbliche se ricoperte da donne: avvocata, sindaca, ministra. Sostenere il principio che la definizione della carica deve essere attagliata al genere di chi la ricopre è già di per sé discriminatorio.

Una domanda: se un uomo esercita la professione di geometra, di pediatra, come deve essere chiamato?

STEFANIA FILIPPONI

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